19 Aprile 2024

Si chiama proprio così, “Titanica Europa la crisi che non ci hanno raccontato”, l’ultimo libro dell’economista spezino Vladimiro Giacchè. Utilizzando una metafora molto evocativa, l’affondamento di un gigante del mare, considerato uno dei monumenti dell’ingegno umano al tempo della “Belle Epoque”, l’autore parla della crisi che dilania oggi un gigante geopolitico come l’Unione Europea, il frutto di un intenso ventennio di globalizzazione e cedimento degli argini dei mercati nazionali o tradizionalmente e macroeconomicamente limitati.

In realtà, le prime pagine del libro affrontano un’analisi dei fatti che hanno portato l’economia europea  ad essere contagiata dall’esplosione finanziaria americana del 2009, nell’immaginario collettivo esemplificabili con il fallimento della Lehman Brothers, una delle maggiori banche d’investimento del mondo. A ben vedere, però, l’analisi di Giacchè prende le mosse da fatti precedenti, databili già agli anni Settanta: da quegli anni, infatti, precisamente nel 1971, è possibile riscontrare un importante accelerazione sulla strada della ormai ben nota “finanziarizzazione” dell’economia; proprio in quella data infatti un polo economico del peso degli Stati Uniti decreta l’abbandono del “gold-exchange standard”, vale a dire la fine del “sistema valutario internazionale imperniato sul dollaro e sulla convertibilità in oro, con le altre monete, a loro volta, ancorate al dollaro”, in favore del “pure dollar standard”, trasformando cioè il dollaro in “una moneta assolutamente fiduciaria”. La crisi petrolifera di metà anni Settanta, la deregulation con  liberalizzazione dei capitali internazionali e abbattimento delle rigide discipline sugli investimenti bancari imposti dopo gli anni bui del post 1929, operati in chiave antikeynesiana da un vento neoliberista impetuoso personificabile nel binomio Reagan-Thatcher, rappresentano significativamente la tendenza al passaggio ad un nuovo tipo d’economia, assai più liquida e per questo assolutamente incontrollabile.


Si giunge, infatti, con gli anni Novanta, all’apice di questa ascesa neoliberista, quando Giappone prima, seguito da Paesi del Nord Europa, sudest asiatico e poi Russia, sono colpiti dallo scoppio di bolle finanziarie, alimentando flussi importanti di capitali verso Wall Street. Proprio in quegli anni, si comincia a leggere in alcuni rapporti economico-finanziari una esplicita menzione di “eccessiva creazione di credito”.

Ma è a questo punto che l’autore pone, probabilmente, la domanda più interessate: la cosiddetta finanziarizzazione è la malattia o nientemeno che un sintomo della crisi? L’autore propende per la secondo ipotesi, affermando che l’esplosione finanziaria ha svolto la triplice funzione di “mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi, puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva e di fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero”.

Insomma, le radici della finanziarizzazione montante sono da rinvenire in un’ espansione del credito al consumo, affermatasi contestualmente ad una progressiva erosione del potere d’acquisto dei salari e del costo del lavoro, nelle eccessive capacità produttive sviluppatesi con il progresso tecnologico applicato alle fasi di produzione e ad un meccanismo perverso di soddisfacimento d’ avidità di profitto per mezzo di strumenti diversi da quelli dell’economia reale, “fare soldi con i soldi”, per usare le parole dell’autore. Per dare qualche numero, si giunge alla creazione di un’economia virtuale che pesa 350 volte circa quanto quella reale.

Questa lettura, dunque, contestualizza e motiva poi il “big bang” del 2009, i fallimenti a domino delle maggiori banche americane e mondiali, divenute nel frattempo propugnatrici di strumenti finanziari pericolosi e assai rischiosi (derivati, mutui subprime, ecc..), grazie anche alla scelta operata da Bill Clinton di eliminare la rigida separazione tra banche di deposito e banche d’investimento. Con questa operazione d’igiene, quindi, Giacchè prova a superare le talvolta aberranti disquisizioni politico-economiche che l’autore stesso, ironicamente, paragona, all’inizio del libro, ad una scena epica dei Blues Brothers, quella in cui Jake spiega alla sua ex fidanzata perché l’ha lasciata sola sull’altare nel giorno delle nozze, col dettaglio che la fanciulla tiene in mano un fucile: “Ero.. rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi pe prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C’è stato il terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia!”.

Come mai, però, questa catena di fallimenti privati ha in seguito prodotto disastri di dimensioni pubbliche ed internazionali? L’economista ci parla di un processo di “socializzazione dei debiti privati sulle spalle degli Stati”, riportando una stima della Banca d’Inghilerra che segnala nel 2009 un flusso di denaro mondiale di circa 14 mila miliardi di dollari dagli erari pubblici alle casse private delle banche. E’ in questo frangente che si inquadrano le dinamiche europee, cioè nella crisi dei debiti sovrani.

L’economista affronta in primis il caso Grecia, per più ragioni peculiare rispetto ai fatti raccontati precedentemente: si tratta di uno Stato che ha subito per anni una manipolazione dei propri bilanci pubblici, ad opera dello schieramento di governo conservatore, celando il costante sforamento dei parametri di Maastricht, il tutto accompagnato da un’azione speculativa volta ad attaccare i titoli di Stato ellenici. L’approccio però adottato dalle più grandi istituzioni europee appare miope o meglio bendato dagli interessi prevalentemente francesi e tedeschi nel salvaguardare le proprie quote detenute di debito greco. Imponendo, infatti, misure di austerità, grazie anche ad un’azione tesa a rappresentare quello greco come un popolo di cicale oziose, vissuto, come si sul dire, al di sopra delle proprie possibilità (tesi che Giacchè smonta in maniera sistematica con la forza del raffronto coii parametri economici delle medie europee), esse producono l’immediata conseguenza di un avvitamento dell’economia su stessa, producendo una pesante recessione, che ancor oggi continua a produrre i suoi disastrosi effetti. Contestualmente a questi fatti, si avvia in Europa una campagna di austerity volta ad una politica di rigore dei bilanci pubblici, secondo assiomi neoclassici, e di rientro dai deficit eccessivi e dagli eccessi di debito pubblico (in misura superiore al 60% secondo gli standard di Maastricht).


La situazione italiana è ben nota in tutto questo: il Paese esce da due anni di costante pressione sui Titoli di Stato, dovuta da un lato alla speculazione montante, dall’altro all’assenza per molto tempo di un ruolo attivo da parte della Banca Centrale Europea. Stretto dalle tenaglie dei trattati di austerità, che hanno introdotto l’obbligo di equilibrio di bilancio e il rientro dall’eccesso di debito, l’applicazione di misure rigoriste da parte di un governo molto organico ai dettami della cosiddetta Troika (BCE, FMI e Commissione) come quello di Mario Monti, ha ottenuto un mero aggravamento degli indici economici e delle condizioni materiali di vita. Non dissimile, anzi peggiore è la condizione spagnola, come quella portoghese (cavalca in questi giorni persino un ipotesi di “uscita assistita” di questo Paese dall’euro). Anche la Francia risente di quella tenaglia già accennata; i Paesi nordici, spesso rappresentati come veri e propri paradisi e regni dell’equilibrio, manifestano segnali di instabilità come il caso dell’Olanda, alle prese con l’impossibilità di sostenere il proprio debito pubblico; la stessa Germania comincia a risentire delle recessioni dei propri partners europei (inevitabile per un Paese che vedo il proprio export pesare per il 50%).

In conclusione, se la costruzione europea è stata un’opera ambiziosa, per grandezza e complessità del progetto, quasi come lo fu il Titanic, si deve dire oggi che, nemmeno troppo difficilmente, si intravedono le pareti ripide e fredde di un iceberg che potrebbe portare alla distruzione dell’intero progetto, un affondamento da cui nessuno può salvarsi. Non è possibile, però, consolarsi ascoltando “l’orchestra” che ostinatamente continua a suonare la stessa “austera” sinfonia: occorre cambiare rotta e virare in maniera decisa, solo così si potrà evitare un nuovo naufragio.

vladimiro giacche-2

Francesco Valerio della Croce

 

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Francesco Valerio della Croce

Sono uno studente di Giurisprudenza alla Luiss "Guido Carli". In questo blog mi occupo di politica ed economia, sicuramente influenzato dalle mie categorie marxiste, ma altrettanto certamente mai con un approccio dogmatico, sordo e miope. Credo che il riscatto necessario in quest'età di collasso e crisi stia nel protagonismo di ciascuno, nella capacità di sentirsi parte di un tutto, nell'essere mossi da una grande aspirazione. Se dovessi riassumere ciò che penso della vita in una frase, direi col grande Majakovskij: "il futuro non viene da solo, agguantalo per le ali o giovane!"

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3 thoughts on “Il Titanic Europa affonda e l’orchestra suona ancora

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