11 Settembre 2024
Cosa si nasconde dietro alla nebbia? Come possiamo avere la certezza che ciò che scompare dietro alla foschia continui ad esistere anche quando non lo vediamo? Quale rapporto esiste tra immanenza del reale e costruzione immaginativa derivata dalla sua astrazione? Se potessimo far scomparire tutto, cancelleremmo anche la sofferenza? Su queste domande – con una riflessione sul concetto di assenza – indaga Nebbia, il nuovo album del gruppo emo-core e post-hardcore reggiano Gazebo Penguins.

La nebbia è sempre stato un fenomeno naturale centrale nelle riflessioni sulla natura, e sull’allegoria che la natura rappresenta per l’uomo, tanto che se ne sono occupati moltissimi grandi del passato, da Hesse a Pascoli, passando per Friedrich. Una sua peculiarità sta nell’essere il punto d’incontro tra trascendenza e immanenza: la nebbia è certamente un fenomeno meteorologico, e come tale “sta in alto” (dal greco “meteoron“), ma contemporaneamente discende al nostro piano fenomenico. La riflessione sulla nebbia è quindi una riflessione che dal piano metafisico si sposta su quello fisico, dal verticale all’orizzontale; è certamente una nube, ma non si trova nel cielo distante e indifferente, bensì in un’atmosfera che è anche terrena, che è anche la nostra. Prima ancora di questo, però, la nebbia è mistero, è l’ignoto, l’inconoscibile, il non-indagabile. Quando sale la nebbia la realtà diventa nebulosa, i margini e gli spigoli si assottigliano, la costituzione ontologica stessa di ciò che ci circonda si confonde e scompare per evanescenza. Nel corto raggio possiamo osservare meglio il reale (o quantomeno possiamo indagarlo attraverso gli altri quattro sensi), ma man mano che si alza lo sguardo la realtà è sempre più misteriosa. Il confine tra visibile e invisibile rappresenta il confine tra il concetto kantiano di fenomeno e quello di noumeno, tra ciò che la ragione può misurare e studiare, e ciò che invece non si può conoscere, ma solo immaginare.

L’album Nebbia segue il filo del concetto di inconoscibile, dell’importanza del ricordo e della memoria (ricordare la realtà anche quando non la si vede a causa della foschia). Utilizza anche altri simboli e altri campi semantici, ma il suo confuso viaggio alla ricerca di una verità parte dalla Roccia di Bismantova, il monte dell’appennino reggiano dalla strana forma di tacco, dalla cima del quale si può spesso scorgere l’oceano padano della nebbia, avendo l’ebrezza romantica di contemplare la vastità dell’ignoto. Nel primo pezzo – appunto, Bismantova – il paesaggio ci appare come una fotografia oscura e confusa (“Anche se sembra tutto nero / è una fotografia”), e subito emergono i temi dell’assenza e della mancanza (“Anche se sembra tutto nero / non andare via). Il viaggio nel concept parte sulla cima di questo particolare monte: lo sguardo si spalanca sulla realtà nebulosa e statica (“Apro gli occhi ed è tutto vero, / non si muove nessun pensiero). L’ostilità della natura avversa non basta a coprire il dolore dell’assenza (“Tutto questo freddo / non fa per noi, / ma non accendo i termo / se non ci sei). Nella title track Nebbia si consuma lo scontro tra natura e cultura, vinto dal primo fronte nonostante l’inquietudine della foschia che pervade i campi della campagna, ed ecco la vittoria dell’elemento naturale su quello antropico (“Fuori la campana / suona ogni mezz’ora, / ma preferisco la campagna / anche quando c’è la nebbia). Nello scontro tra civiltà sociale e isolamento nella natura attraverso l’immagine dicotomica campana-campagna colgo una velata citazione al finale del romanzo Uno Nessuno Centomila di Pirandello, in cui il suono ricorsivo della campana simboleggia il richiamo dell’umanità, ma il protagonista preferisce l’isolamento introspettivo e la fusione panica con la natura. Se la citazione sia veramente intenzionale non lo so, ma certamente l’indagine sull’identità e sull’ontologia del soggetto che osserva la realtà sociale (realtà misteriosa e confusa, in cui le identità degli altri enti si confondono e appaiono mutevoli e poliedriche) è una tematica centrale sia di Nebbia che della poetica pirandelliana.


Febbre è un pezzo con un’atmosfera più melodica che ci rimanda all’interiorità, eccetto che per l’esplosione sonora finale. E’ un viaggio supersonico oltre le barriere dello spazio-tempo, un viaggio del soggetto verso l’oggetto del ricordo/desiderio (“Vorrei essere capace / di voltarmi / alla velocità della luce, / prima del tempo / e dello spazio / che ci divide, / trecentomila / chilometri al secondo). E’ un viaggio fatto nell’iperspazio attraverso il pensiero, un salto dimensionale improvviso – che dura una frazione di secondo, il tempo di un battito di ciglia – nel quale l’oscurità diventa tabula rasa su cui ricostruire con la penna della memoria: “Io proverò / a chiudere gli occhi, / a far scomparire tutto, // e riaprirli con te. Ma Febbre non è solo un viaggio interiore, è anche un esperimento scientifico. Se la realtà è conoscibile grazie al riflesso dei fotoni che viaggiano nel vuoto, cosa vedremmo se il nostro sguardo fosse più veloce della luce stessa? Se le sfumature cromatiche sono legate alle vibrazioni delle particelle/onde luminose, “di che colore [sarebbe] il mondo” senza la luce? Non è dato saperlo, ma questo accenno alla fisica teorica e alla relatività è certamente legato al main theme dell’album.

La quarta traccia, Soffrire non è utile, è attualissima e ci rimanda al tema sempre più ricorrente dell’auto-distruzione, nel dolore come analgesico al dolore stesso, dell’annegamento della memoria nei dolci fiumi dell’oblio (“A volte / consola / rovinarsi il fegato). Quando c’è il “sospetto che forse stare male ti conviene, i Gazebo Penguins vogliono ricordarci che il dolore analgesico e rassicurante non esiste, nonostante il fascino (in questi tempi sempre più ostentato) per la sofferenza ricercata e auto-indotta, e che compito loro è anche lasciare traccia di questa consapevolezza nella dialettica della comunicazione (“Soffrire non è utile: / lo scriverò sui borderaux). Quella della sofferenza è una tematica centrale dell’album che nasce, a detta degli autori, come tentativo di dare una risposta alla domanda: se potessimo far scomparire tutto, cancelleremmo anche la sofferenza? Si tratta di un quesito non affatto banale, perché ci invita a riflettere un rapporto tra dolore e esistenza. Non sappiamo neanche se quel cancelleremmo sta per “vorremmo cancellare” (legato quindi all’intenzionalità di voler vivere una vita senza dolore che, per quanto felice, resterebbe incompleta)  o “potremmo cancellare” (riferito invece alla possibilità di separare l’essenza stessa dell’esistenza da quella della sofferenza).

Attorno a questo quesito orbita anche Scomparire, uno dei pezzi più emblematici dell’album, dove affiora ancora una volta la tematica dell’impossibilità di distinguere tra loro gli enti della realtà, immersi come sono nell’ectoplasma della nebbia; ma anche l’impossibilità di sparire, che ci rimanda direttamente alla domanda centrale, senza darne una risposta ma scardinandone direttamente il quesito delegittimandone il senso. Ci viene quasi da pensare che l’impossibilità di indagare il reale sia un limite intrinseco all’osservatore stesso, legato ad una disfunzione dei suoi strumenti conoscitivi, alla sua cecità (“Se sono miope / il mondo è come me / senza fuoco, e sta lì / per confondermi). In Scomparire prosegue anche il tema dell’attesa infinita dell’oggetto desiderato, che tarda ad arrivare. Dopo la potenza maestosa della traccia strumentale Fuoriporta, il viaggio continua nel concept dell’ignoto con Porta, veloce e ritmata. “Rifletto a volte sul cosmo, / se sia caos o ordine ci racconta il soggetto narrante: l’indagine della ragiona nella realtà è destinata a fallire, e ogni desiderio di razionalizzazione e di astrazione positiva (e positivista) decade nel baratro del mare dell’inconoscibile, nel nihil, (“Ho speso ormai troppi anni / in cerca / di un senso“), e quel che resta è un brandello di ombre, di residui del piano fenomenico immediatamente vicino al soggetto; quel che ci è dato vedere con la nebbia sono solo i pochi metri quadrati intorno a noi. Tutta la ricerca è però vana. Tutto si esaurisce nell’agnostica sospensione del giudizio, nella sola fede in quel poco che è realmente tangibile: “Non avrai / altro dio / all’infuori del mondo!“. La riflessione che scaturisce da Porta è anche e soprattutto una riflessione esistenziale sul concetto stesso di esistenza, concepita come opposto alla libertà totale della non-esistenza (“in cerca di quella libertà / che ho perso / nascendo), con vaghi riferimenti alla filosofia esistenzialista. Questo ci rimanda all’interrogativo sul rapporto tra esistenza e sofferenza a cui la band si è dichiaratamente ispirata scrivendo l’album, inserendo or nell’equazione anche il parametro della libertà.

Il viaggio si avvicina alla fine: Atlantide è l’ottava e penultima traccia, ma è anche la città immaginaria della mitologia antica. E questo pezzo sembra proprio una poesia su come Atlantide sia stata distrutta, diventando così città perfetta e immortale. Il rapporto tra distruzione e liberazione è palese: Mi hanno hanno cancellata / con un muro sulla porta d’entrata” – “Mi hanno liberata, / una fila di mattoni all’entrata”. In questo pezzo un ruolo centrale è lasciato alla dirompenza dell’apertura, della vastità, del non-confine (“La città perfetta / non sarà mai / la città protetta, / [ma] una città in cui perdersi). La vera libertà è quindi nell’inquietudine, nel non-sapere, nell’ignoto, nella scomodità, nell’angoscia e nel tremore a la Kierkegaard; la vera città ideale è la città ridotta a macerie. Ed ecco il testamento intellettuale del nostro viaggiatore – del nostro viandante romantico che ha compiuto il viaggio nel mare di nebbia – (ma anche il testamento della città di Atlantide) dove ritornano le immagini della porta e del muro come limiti al pensiero, limiti da superare e da far esplodere:

“Grida forte,
resta scomodo,
le mie porte
non si chiudono.
Grida forte,
resta scomodo,
Queste  mura
ora esplodono.”

L’ultimo pezzo è Pioggia, e ci appare come l’epilogo perfetto per questo folle viaggio nell’inconoscibile. Il nostro eroe-soggetto non ha ancora abbandonato la speranza di trovare un appiglio nel buio della nebbia. Nonostante ancora non vi sia traccia di quel te-ideale a cui si rivolge in seconda persona (ovvero dell’oggetto della ricerca smaniosa) l’indagine continua, prima al livello intellettuale e poi al livello fisico. Traspare da questi versi la vaga sensazione che la miopia del soggetto derivi proprio dalla sua smania di cercare risposte introvabili, di voler trovare un senso alla realtà anche nell’oscurità ignota (“Continuo a leggere al buio / e tu / continui a tardare: / so che fa male alla vista, / ma ormai / non so più cosa guardare”). Vi è anche una strana disperazione derivante dall’ambiguità del rapporto con l’oggetto: sappiamo che è desiderato, perché la sua scomparsa ha lasciato un vuoto – non colmano certamente dalla sua immagine surrogata riflessa nel mondo digitale (“E’ ancora attivo / il tuo profilo: / un vuoto aperto sul vuoto si sentiva in Bismantova) -, però sappiamo anche che è l’origine della frenesia e della disperazione che muovono la ricerca, che sappiamo ormai essere vana. Ecco la doppia lama del concept: il te-ideale tanto anelato è fonte di contraddizioni emotive e di paradossi, è sia motivo di speranza che di frustrazione (“E trovo assurdo che sia sempre tu / la stessa persona / che mi solleva da terra per poi / lasciarmi cadere”).

Dopo un ritmato intermezzo di circa un minuto e mezzo, inizia la seconda parte di Pioggia. Dalla lettura intellettuale della realtà il viaggio si fa più letterale e fisico: ci si trova in un’auto, sempre al buio, ma in mezzo alla pioggia. Le gocce cadono scandite dalla batteria e ciò che muove questa corsa folle nella tempesta è ancora una volta il desiderio di sparire (“In queste sere di pioggia / guidare solo / per andare / lontano) e il desiderio allucinato di vedere l’immagine sbiadita del teideale confuso nella realtà in un panismo disperato che non ha nulla di magico, ma è solo nella mente dell’automobilista (“continuo ancora a vederti / in ogni auto che / incrocio / per strada). E’ negli ultimi versi che si sintetizza il grande paradosso di Pioggia, e quindi anche di Nebbia:


In queste sere di pioggia
capire che
resto solo
se resti
con me.

Ma com’è possibile che l’oggetto resti con il soggetto se non c’è più? Dare una risposta certa non è possibile. Forse quel “se resti / con me (che viene ripetuto più volte fino all’esaurirsi di Pioggia) si riferisce alla presenza del ricordo e dell’immagine e non all’oggetto reale in sè, forse si riferisce solo alla traccia che la sua assenza ha lasciato: non è forse vero che anche il vuoto ha comunque una sua tangibilità se è concepito come non-pienoNebbia non è certo il disco-apice dei Gazebo Penguins, ma non è neanche un’opera semplicistica; è un quasi-concept album che si presta a varie interpretazioni, e può essere letto a livelli meta-concettuali diversi. Forse è una riflessione epistemologica su ciò che è legittimo indagare con la razionalità (fenomeno) e ciò che invece è da delegare alla fantasia e alla fede laica (noumeno), aprendo però nuove domande su cos’è veramente il mondo sul piano ontologico (il mondo-divinità immanente del “non avrai altro dio all’infuori del Mondo” in Porta). Forse è la ricerca disperata di una persona amata scomparsa. Scomparsa come? Defunta o fuggita? Ripensando al “Ti smarrirò / sulla montagna / a primavera finita” della prima traccia potrebbe trattarsi di un abbandono volontario seguito dal pentimento, oppure potrebbe essere uno dei suicidi per cui la Pietra di Bismantova è tristemente nota. O forse Nebbia è solo una serie di deliri stilistici, certamente suggestivi sul piano del significato quanto su quello musicale (rispetto agli album precedenti, si nota poi un cambiamento sonoro, verso generi nuovi).

Quel che è certo è che Nebbia appartiene alla categoria dei dischi che, nonostante non siano consapevolmente concept e non abbiano una narrazione strutturata e continua, hanno quel sapore straordinario di unità e completezza; e forse nel caso di Nebbia questo senso di completezza deriva paradossalmente dal minimo comune multiplo di ogni traccia: ovvero dal concetto di incompletezza. Potremmo spendere molte più parole per formulare ipotesi e interpretazioni su questo album, ma vagheremmo sempre e comunque nell’inconsistenza del non-senso e del quasi-nichilismo, ci sentiremmo sempre e comunque confusi e deliranti nelle trame linguistiche dei suoi testi, ignari di ciò che si nasconde dietro ai suoi versi; un po’ come ignara è la bambina in bicicletta nella cover art della copertina che avanza nella nebbia.

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Francesco Rau

Livornese ma nato in Tanzania, classe '97. Capo-scout Agesci, cattolico, laureato in Scienze del Servizio Sociale, educatore. Appassionato di scienze sociali, recitazione e filosofia.

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