Senza grande risonanza si è svolta, a Marina di Pietrasanta, la ormai tradizionale kermesse del Fatto Quotidiano. Una tre giorni di dibattiti e spettacoli, inseriti all’interno del programma della Versiliana dal venerdi alla domenica scorsi, culminati nello show/comizio di Travaglio, a pagamento, inscenato domenica sera.
Un appuntamento stimolante, molti ospiti illustri, in maggioranza giornalisti stessi del Fatto, i quali si sono prodigati nel doppio ruolo di ospiti-organizzatori: un equivoco che ha il suo massimo nel dibattito Zagrebelsky-Orlando sulla riforma costituzionale, nel quale come moderatrice è stata scelta Silvia Truzzi, la coautrice (con Travaglio) del best seller “Perché no”, libro di punta per i sostenitori del no alla riforma, Truzzi che inevitabilmente è stata chiamata ad un ruolo assurdo di moderatrice anche di se stessa.
Lei è stata comunque brava ad essere corretta nel non influire troppo sul dibattito, il quale però si è trasformato inevitabilmente in un due contro uno che ha visto Orlando reggere botta più che bene.
Indubbiamente, però, una forzatura organizzativa, così come è un inganno psicologico quello di far assumere all’attrice Giorgia Salari il ruolo di Maria Elena Boschi all’interno dello show “PERCHE’ NO, tutte le bugie del Referenzum”: nello spettacolo conclusivo della tre giorni, Travaglio si fa pagare 14€ per farsi ascoltare e per convincerci a votare no, raffigurando la ministra come un computer preprogrammato capace di ripetere solo la lezioncina di Matteo, colta ogni 3 minuti da possessioni demoniache che inducono in lei reazioni da sindrome di Tourette, offese stupide e bambinesche nei confronti di Travaglio stesso.
Chiaramente ne viene fuori un finto dibattito in cui le ragioni del no sono sostenute in maniera seria e quelle del si sono intrinsecamente inconsistenti in quanto scritte da Travaglio stesso. Tutto molto noioso, anche perché di certo il direttore del Fatto non è mai stato un campione di simpatia, eppure la ostenta riempiendo di battute insipide il (finto) dibattito: il finale poi, un malcelato flop, con l’integerrimo Marco che arringa la folla chiedendo “Volete che la Boschi e Renzi vadano a casa?” ed il pubblico, per la quasi totalità composto da rigidi antirenziani, ormai sfibrato da 90 minuti di monologo monotono, che fa uscire un flebile ma plebiscitario “si…”, che sembrava molto una risposta ad un ipotetico “volete andare a casa voi?” più che l’urlo liberatorio atteso dal palco.
Un (finto) dibattito molto scarno di contenuti, in cui viene sostenuto tutto e il contrario di tutto, “con questa riforma c’è il rischio autoritarismo”, seguito da “tanto il premio di maggioranza da soli 24 parlamentari, continuerà l’ingovernabilità”: come deve essere allora la riforma? Il premio di maggioranza deve essere ancora più ampio?!
Francamente ero molto scocciato dal fatto di dover pagare per ascoltare un giornalista, poi però, a posteriori, mi sono reso conto che sbagliavo: di giornalistico c’era ben poco, era uno spettacolo, poco divertente, ma tutto sommato non troppo caro.
Nel complesso però l’appuntamento è stato un successo, tanta gente, molti dibattiti interessanti, primo fra tutti quello immediatamente antecedente lo spettacolo di Travaglio, “Previsioni. Dialogo sul futuro prossimo”: un’ intervista in cui Santoro chiede a Cacciari cosa ne pensa della situazione politica attuale internazionale, in particolare il tramonto dell’immagine positiva e salvifica dell’occidente nei confronti del terzo mondo e quindi l’ascesa del terrorismo islamico, ma anche la storicizzazione del “passaggio cruciale” della caduta del muro e la scelta del blocco vincente (Usa) votata verso il neoimperialismo piuttosto che la collaborazione fra liberi stati.
Meno interessante, ma d’obbligo, la parte dedicata al referendum, nella quale Santoro si avventura in una critica verso l’inconsistenza dei 5 stelle, attirando i fischi ed allineandosi alla parte dem del pd, ovvero si al monocameralismo, no al combinato disposto riforma-italicum.
Dal canto suo invece Cacciari è schierato apertamente verso il si da molti mesi, adducendo però due motivazioni tutt’altro che convincenti: “la riforma non mi sembra che peggiori la situazione” e “se vince il no si va verso l’ignoto”.
In realtà l’appuntamento era in tutto e per tutto incentrato sul referendum, dal presidio del comitato del no, al conferimento, dato pubblicamente da Santoro, della carica di leader “de facto” di questo fronte data a Travaglio. Ah, per inciso, i militanti indipendenti del no erano molto più convincenti, perché discutevano nel merito della riforma, dei soloni dalle cui labbra tutti pendevano.
Il clima di supponenza e presunzione pervadeva l’intera pineta della Versiliana, in maniera miope, ad ogni dibattito la platea era già schierata in partenza e difficilmente si incontrava lo sguardo di chi era venuto per capire, informarsi, riflettere. Tanti pensionati, qualche giovane, pochissimi, eccetto i giornalisti, nella fascia 30-50 anni, tutti contro Renzi senza se e senza ma, quasi tutti grillini, ma in definitiva un popolo di conservatori giustizialisti.
Poche proposte e molta analisi, come quella, molto interessante, fatta da Scanzi, Buttafuoco e Travaglio riguardo i “social pirla” o “webeti”, come ribattezzati da Mentana: un excursus, fatto in maniera chiaramente sempre molto presuntuosa, dei vari profili e personaggi che invadono i social con insulti, risposte fuori tema, ossessioni di scie chimiche ed altro. Dal dibattito è emersa l’esigenza di eliminare l’anonimato dei commenti, riferendosi principalmente ai quotidiani online, omettendo però che in diversi quotidiani (come Repubblica ad esempio) è già così.
Fuggire da logiche di appartenenza, da discussioni in cui le parti si dividono in tifoserie agguerrite senza provare a dialogare, a capire in cosa l’altro può aver ragione: questa la parte più bella del dibattito “Social Pirla”, questo quello che speravo di trovare alla settima festa del Fatto Quotidiano, ma che non ho trovato.
Il Fatto ha il merito di essere un giornale indipendente, autofinanziato, apartitico ma non apolitico e in questo senso va sostenuto per il bene dell’informazione nazionale.
Soprattutto in un momento in cui le reti pubbliche sono state occupate, neanche da un solo partito, ma da metà di questo (il pd renziano): perciò il Fatto ha anche il dovere morale di farsi voler bene, scendendo dal suo piedistallo di autoreferenzialità e elitarismo, a meno che non voglia diventare soltanto la voce dei neoradical chic populisti che hanno applaudito più i cognomi dei concetti.
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