19 Marzo 2024

I Muiravale Freetown sono una band reggae di Terracina(LT) che nasce nel 2009. L’ispirazione del gruppo è legata alla figura di Alfredo Fiorini, medico missionario terracinese morto in Mozambico, per mano di guerriglieri locali. Anni dopo, il nipote Antonio scrive una canzone in sua memoria e la intitola “Hermano Alfredo”, in ricordo di quel sacrificio e estremo atto di altruismo. A questa canzone è legata la nascita della band, che arriva a pubblicare il suo primo album dal titolo omonimo “Muiravale Freetown” nel 2013, grazie anche alla collaborazione di Paolo Baldini, tutt’oggi loro produttore. Dai palchi della provincia pontina i Muiravale arrivano a portare il loro show in molte città italiane, fino ad arrivare a Benicàssim (Spagna) l’estate scorsa, partecipando al famoso festival del Rototom.  Questi ragazzi, uniti da un’ispirazione comune, dal grande talento e dalla voglia di suonare, sono riusciti a mettere in piedi una band quasi dal nulla, a farla funzionare e conoscere ad un pubblico sempre più numeroso. Con estrema coerenza di musicalità e messaggio, riescono sempre a portare sul palco la loro vitalità e a trasmetterla a chi li ascolta.
Mi rendo conto che il mio giudizio, come amante di questo genere musicale e soprattutto come originaria di Terracina, possa risultare un po’ imparziale e probabilmente lo è. Ma quando penso alla mia terra è inevitabile che mi vengano in mente i Muiravale, i concerti in spiaggia in piena estate, la loro musica che coinvolge, fa ballare e soprattutto unisce le persone. Una musica che lascia nel cuore di tutti i loro conterranei un vero e proprio senso di appartenenza. Resta quindi spiegato come il loro crescente successo sia per noi motivo di gioia e di orgoglio.

Per questo motivo quando ho visto che i Muiravale avrebbero suonato a Livorno il 7 maggio, mi è venuto in mente di scrivere quest’articolo per parlarvi di loro e farveli conoscere meglio. E lo faccio attraverso le parole del loro chitarrista Daniele Del Monte, che con gentilezza e professionalità si è prestato a questa intervista raccontandoci la storia e le ispirazioni della sua band.


Il nome del gruppo è legato ad una storia particolare, quella del missionario Alfredo Fiorini. A lui avete dedicato la canzone “Hermano Alfredo”, successivamente riarrangiata e intitolata “Trinity”. In che modo la sua storia ha portato alla formazione della band e ispirato la vostra musica?

Il progetto nasce nel 2009, quando Antonio (batterista) mi fa ascoltare il brano “Hermano Alfredo” e mi propone di formare un gruppo raggae. Era quello un genere musicale molto lontano da me, almeno fino a quel momento, ma animati da un’ispirazione comune ci siamo gettati in questa avventura e abbiamo formato, insieme agli altri componenti, i Muiravale Freetown. Il nome del gruppo è significativo e, come hai già detto te, è legato alla storia di Alfredo Fiorini, un medico missionario terracinese che invece di entrare in seminario scelse di sfruttare la sua vocazione per aiutare gli altri, prestando servizio in Mozambico. Qui, il 24 agosto del ’92 in un piccolo paese di nome Muiravale appunto, venne ucciso da una raffica di mitra da parte di una guerriglia. Il nome della nostra band vuole dunque essere un omaggio ad Alfredo Fiorini, alla sua bontà d’animo e al suo altruismo. Cantare per una “Muiravale libera” è il nostro modo per non dimenticare il suo sacrificio. Lo stesso significato ha per noi la canzone Hermano  Alfredo, che abbiamo poi inserito nell’album riarrangiandola e scrivendo il testo in inglese (o patwa). Il messaggio della canzone è lo stesso, ma Trinity si presenta come un brano più consapevole e maturo, e musicalmente in linea con l’intero album.

 Siete una band numerosa, con molte sezioni strumentali ( tra cui anche tromba e trombone). Perché questa scelta? Tanti è meglio?

Il reggae è prima di tutto musica di partecipazione e condivisione. Dal roots (genere che conosce fortuna con Bob Marley) nasce questa voglia di creare un sound formato da più suoni diversi. A noi questo tipo di musica piace, e parecchio anche. Per questo motivo dai cinque componenti che eravamo all’inizio abbiamo allargato il gruppo inserendo anche i fiati. Si tratta di una scelta stilistica, molti oggi utilizzano strumenti e tastiere digitali per creare la loro musica. Noi ci riteniamo più analogici, anche se probabilmente è un po’ scomodo affittare ogni volta un pulmino per otto persone e relativi strumenti (ride). La nostra musica ci piace, e probabilmente il nostro essere “tanti”, come hai detto tu, ci consente di lavorare molto sullo show e renderlo coinvolgente per il pubblico.

Muiravale Freetown” è il vostro album di esordio, uscito nel 2013. Questo è stato prodotto  da Paolo Baldini, un nome importante nel panorama italiano della musica reggae.  Che rapporto avete con lui e in che modo influenza positivamente la vostra produzione artistica?

cdA Paolo dobbiamo tanto, su questo non c’è dubbio. L’abbiamo conosciuto nel 2009, in occasione del concerto degli Africa Unite a Terracina. Ci disse, con molta professionalità, che vedeva in noi del talento, ma che avevamo ancora bisogno di crescere.  Lo rincontrammo nel 2013, e stavolta gli presentammo dei brani sicuramente più maturi. Gli piacquero e avemmo così la possibilità di produrre il nostro primo album. La firma di Paolo Baldini è evidente, è riuscito a dare un taglio nuovo alla nostra musica. Certo, inizialmente abbiamo dovuto “farci l’orecchio”, ma è stata questione di secondi: subito abbiamo capito che quello era il sound giusto, il sound di chi conosce bene il settore. Chiaro che questo non significa non ci sia nulla dei Muiravale nel nostro album, anzi.
Sicuramente Paolo ha dato quel tocco in più, ha arricchito il nostro sound, ma non l’avrebbe fatto se non gli avessimo presentato dei brani su cui valeva la pena “mettere mano”.


 

State già lavorando al prossimo album?

Si, ma ammetto che lo stiamo facendo un po’ a rilento. Siamo molto impegnati nei live in questo periodo, e quando ci incontriamo in studio lavoriamo molto sullo show. In questo abbiamo però inserito alcuni brani inediti, che troverete sicuramente nel prossimo album.

 Molte delle vostre canzoni si presentano come una denuncia sociale, tutte sono sicuramente ballabili e coinvolgono il pubblico. A quale pezzo vi sentiti emotivamente più legati e quale vi divertite di più a suonare sul palco?

Quella a cui siamo più legati è sicuramente Trinity, perché è il pezzo che rappresenta la stessa ispirazione della band. Questo legame è evidente non solo nel testo e nella musica del brano, ma anche all’interno dello show. Quello di Trinity è un momento di raccoglimento, sia per noi che per il pubblico. Stiamo parlando di un sacrificio, stiamo ricordando Alfredo Fiorini, questa è la nostra ispirazione e ci teniamo a sottolinearlo ogni volta che possiamo, soprattutto nei nostri live.
Per quanto riguarda invece le canzoni che più ci divertono, parlo per me e ti rispondo Build a Bridge, che nel live presentiamo in una versione più ska, e Love Potion che è anche il brano con cui chiudiamo i concerti. Sai, puntiamo molto sull’apertura e chiusura dello show, poiché sono quelli i momenti che il pubblico ricorda di più. Cerchiamo sempre di iniziare e finire al meglio.

Il reggae è un genere molto settoriale, di nicchia. Perché questa scelta? Quanto la musicalità jamaicana riesce a coinvolgere un pubblico sempre più attento alle novità pop del panorama musicale?

Beh, non posso che risponderti con un’altra domanda: perché darsi al commerciale?
Se si deve intraprendere un discorso musicale solo ed esclusivamente per soldi allora tanto vale “appendere gli strumenti al chiodo” e darsi all’ economia&management (ride). A parte gli scherzi, quando si prende in mano una chitarra, un microfono, qualsiasi strumento musicale e si presta la propria voce alla musica lo si fa per trasmettere il proprio pensiero, e per noi la musica reggae rappresenta il “veicolo” adatto. Il reggae è il genere che più di tutti riesce a dare voce al nostro messaggio, e questo basta. Fare un discorso esclusivamente di soldi è un’altra storia, sta poi alla coscienza di ognuno.
Ci piace dire che non siamo stati noi a scegliere il reggae, è piuttosto il reggae che ha scelto noi. La consapevolezza si è poi raggiunta con gli anni, con le prove in studio, i live, il confronto col pubblico. Sicuramente il reggae consente di trasmettere un messaggio di pace e tolleranza, che è quello contenuto in molti dei nostri brani.

Parliamo ora del linguaggio. In che misura l’uso dell’inglese (o patwa) rappresenta un limite nella stesura dei testi e nella creazione musicale?

Emanuele (aka Shakmanaly) canta e scrive i testi con  molta consapevolezza.
Certo per un italiano non è facile adottare questo slang, ma ha studiato molto per riuscire a parlarlo, anzi a cantarlo, con una certa fluidità. Quando creiamo un nuovo pezzo è lui che scrive il testo e che trova una linea di voce bella e adatta alla musica. Noi musicisti ci definiamo piuttosto un contorno, l’orchestra che lui dirige. Ovviamente ogni elemento della band è fondamentale e indispensabile, ma soprattutto nei live è  Emanuele che dà il tempo e che ha l’importante compito di coinvolgere quanto più possibile il pubblico. Tornando al discorso della lingua ti dico anche che ci piacerebbe organizzare un viaggio in Jamaica, che è un po’ la terra promessa per tutti quelli che fanno reggae. Per Shak rappresenterebbe poi la possibilità di imparare ancora meglio lo slang e confrontarsi direttamente con la realtà giamaicana, che è poi quella che influenza il nostro sound.

Quali sono i gruppi e le personalità che più vi ispirano?

La nostra concezione del reggae si discosta molto da quella che maggiormente si ascolta in Italia. Parlo ad esempio del Raggamuffin, che caratterizza la scena romana e quella salentina. È un genere parecchio diffuso, ma che non ci appartiene. Quando componiamo musica adottiamo di più lo ska, il roots e la dancehall. E se devo parlarti di ispirazione ti cito necessariamente gli Africa Unite e Alborosie – un italiano che, parliamoci chiaro, è andato in Giamaica a insegnare ai giamaicani come si fa il reggae (ride). Poi ovviamente ha un ruolo importante la “contaminazione” col sound di Paolo Baldini, e le collaborazioni con altri gruppi attualmente attivi sempre in Italia come gli Arawak e i Mellow Mood.  Lavorando con loro è inevitabile che ci si influenzi a vicenda.

Dalla spiaggia di Terracina avete portato la vostra musica sui palchi di molte città italiane, arrivando a partecipare anche al Rototom (Benicàssim-Spagna) l’estate scorsa. Come è stata quest’esperienza? Quanto siete legati alla vostra terra e come vi confrontate con un pubblico che non conosce la vostra musica?

Anche di palco in palco, la nostra identità rimane la stessa. Ci siamo esibiti da Cosenza, a Treviso riuscendo partecipare anche al Rototom in Spagna, ma l’approccio col pubblico rimane lo stesso. Siamo i soliti otto stronzi che suonano reggae col cuore e che amano la propria città – perché sì, seppur con tutti i suoi problemi noi amiamo Terracina, il suo mare la sua spiaggia. Resta sempre casa nostra.
Quindi se al pubblico piace la nostra musica bene, noi proviamo sempre a fare del nostro meglio. La musica è comunque tolleranza e condivisione.
Poi mi avevi chiesto del Rototom giusto? Beh, parto col dirti che è stata una vera e propria avventura, già a partire dal viaggio, che è durato un giorno e mezzo. Senza praticamente dormire siamo arrivati a questo festival grandioso – si parla di oltre 230.000  presenze in dieci giorni di festival. Ti assicuro che è stato un bel banco di prova presentarsi davanti ad un pubblico tanto vasto, puoi immaginare la tensione. Ci siamo esibiti dalle 6.00 alle 8.00 di mattina, ma c’era comunque tantissima gente perché il festival ha degli orario precisi che assicurano musica continua h24. Per fartela breve, abbiamo viaggiato per un giorno e mezzo, siamo saliti sul palco del Rototom e senza neanche un’ora di sonno abbiamo fatto il nostro show, alle otto di mattina abbiamo cenato e subito siamo ripartiti

Beh, è il prezzo della fama no?

Più che altro della fame (ride). Fame di musica ovviamente.
Nonostante tutto posso assicurarti che è stata un’esperienza fantastica, che non solo ci ha arricchito musicalmente, ma ci ha anche unito molto come band. È come se servisse un’esperienza così importante, una full immersion di musica reggae, per rafforzare il nostro gruppo. In effetti il Rototom è arrivato in un momento particolare, alla fine di un’ estate in cui c’erano stati molti cambiamenti. Quattro membri erano andati via, e avevamo dovuto rimboccarci le maniche e ricostruire il sound dei Muiravale insieme ai nuovi membri della band. Non è stata una passeggiata, devo dire che ci abbiamo lavorato molto, soprattutto nei mesi del tour estivo, e ad agosto siamo tornati dal Rototom più uniti e sicuramente appagati. Sì, questa esperienza è stata molto importante per la band.

Bene, ora dacci tre buoni motivi per venirvi a sentire il 7 maggio a Livorno.

Innanzitutto perché siamo carichissimi e il nostro show migliora di giorno in giorno, stiamo lavorando molto sull’impatto che abbiamo sul pubblico. Quindi se amate la musica reggae vi consiglio di venire e godervi uno show tutto nuovo che vi farà ballare tanto e divertire.
Il secondo motivo è che sul palco non saremo soli. Grazie  alla BIG UP events, la nostra nuova agenzia, siamo stati ingaggiati per questo evento, il LIVE’N’IRIE REGGAE FEST, al quale parteciperanno anche i Rusty Rockerz, i Pidduck and the cooltones e la Banpey Crew per il dj set. Vale dunque la pena di ascoltare, oltre che noi, anche questi gruppi e passare una serata tutta a base di reggae.
Per il terzo motivo, cosa dire. Beh, è la nostra prima volta a Livorno e ci piacerebbe ricordarla come una serata grandiosa.
I Muiravale Freetown vi aspettano il 7 maggio al Surfer Joe(LI), non mancate!

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Viviana Iannizzi

Viviana, 25 anni. Di Terracina, ma adottata dall’Università degli studi di Firenze già da cinque anni. Laureata in Studi in comunicazione alla facoltà di Scienze politiche, coltivo parallelamente la mia più grande passione: il cinema. Per questo, qui su Uni Info News, vi parlo dei film che ho visto e vi consiglio i miei preferiti.

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