19 Aprile 2024

Amaro, ironico e comico è l’Avaro di Molière, un evergreen proposto il 4 e 5 novembre al Teatro Verdi di Pisa, secondo titolo della Stagione di Prosa, nella versione curata dal regista e drammaturgo Ugo Chiti e prodotta da Arca Azzurra Teatro. La celebre storia di ipocondria e comicità ha ispirato Chiti, il quale ha sapientemente reinterpretato il testo molieriano con un “rispettoso tradimento”, come lui stesso ha affermato:

Libero adattamento da Molière o forse sarebbe più corretto dire “rispettoso tradimento” oppure potrei azzardare in vena di barocchismi, una sottotitolazione più pretestuosa come “da Molière le premesse per una metateatrale rivisitazione attorno a L’Avaro”.

Questo adattamento ha mantenuto come personaggio principale Arpagone, interpretato da un impeccabile Alessandro Benvenuti, padrone di casa e padre di famiglia avaro, attorno a cui ruota la vicenda. Benvenuti è stato affiancato da un grande cast: Gabriele Giaffreda (Valerio), Lucia Socci (Elisa), Andrea Costagli (Cleante), Massimo Salvianti (Freccia), Dimitri Frosali (Mastro Giacomo), Paolo Ciotti (Don Anselmo), Giuliana Colzi (Frosina), Elisa Proietti (Mariana).


Chiti ha posto l’attenzione sulla forza della parola, per evidenziarne tutta la sua aggressività, dolcezza ed ironia, aggiungendo al testo drammaturgico frasi o battute contemporanee, come l’esclamazione “stai sereno”, riuscendo a “svecchiare” non solo il testo, ma anche il ritmo narrativo. Inoltre il regista ha aggiunto un prologo ed un epilogo alla storia, rendendo così la messinscena più dinamica, senza snaturare o alterare la commedia.

Il nostro Avaro occhieggia a Balzac- annota Ugo Chiti- senza dimenticare la commedia dell’arte intrecciando ulteriormente le trame amorose in un’affettuosa allusione a Marivaux. Contaminazioni a parte, Arpagone resta personaggio centrale assoluto mantenendo quelle caratteristiche che da sempre hanno determinato la sua fortuna teatrale, si accentuano alcune implicazioni psicologiche, si allungano ombre paranoiche, emergono paure e considerazioni che sono più rimandi al contemporaneo. La parola è usata in maniera diretta, spogliata di ogni parvenza aggraziata, vista in funzione di una ritmica tesa ad evidenziare l’aggressività come la ferocia più sotterranea della vicenda.

Trama

L’Avaro è una commedia in prosa in cinque atti scritta e rappresentata da Molière a Parigi al Palais-Royal il 9 settembre 1668 e pubblicata nel 1669. Uno dei titoli più amati e rappresentati l’Avaro è la più impressionante figurazione dell’avarizia, più ricca di Euclione, il protagonista de l’Aulularia di Plauto a cui Molière si ispirò per la stesura del suo capolavoro.

Arpagone è l’avarizia portata all’universale. È anche un capofamiglia egoista e tirannico che decide le sorti dei due figli Elisa e Cleante e della servitù. Cleante è innamorato della bella e povera Mariana, ma il padre lo vuole accasare con una ricca vedova e sposare lui stesso la giovane fanciulla nello stesso giorno in cui l’anziano amico Anselmo sposerà sua figlia Elisa, innamorata però di Valerio, un giovane alle dipendenze di Arpagone. Cleante, per avere il denaro necessario alle nozze con Mariana, ricorre all’usura con l’aiuto del servo di casa Freccia, ma lo strozzino non è che Arpagone, il quale, per ottenere i favori della giovane fanciulla, ricorre alla mezzana Frosina, che cerca di trarre profitto da questo matrimonio combinato.

Quando Mariana arriva a casa di Arpagone non nasconde il proprio disgusto per il vecchio e manifesta di prediligere Cleante, che riconosce come il suo innamorato. Arpagone, concentrato sui matrimoni, non si accorge della scomparsa della cassetta colma dell’intero suo patrimonio in denari, da lui accuratamente nascosta in giardino, sottratta dal servo Freccia. Quando il protagonista scopre il misfatto indaga e sospetta di tutti. La colpa ricade su Valerio, il quale confessa l’amore per Elisa, credendo che Arpagone li avesse scoperti e per calmarlo chiede la mano dell’amata vantandosi discendente di un nobile napoletano perito in un naufragio: il quale altri non è che il vecchio Anselmo, vivo e vegeto. Oltre a riconoscere il figlio disperso, questi ritrova in Mariana la propria figlia perduta. Arpagone deve così rinunciare al suo matrimonio, del resto ciò che gli preme è solo l’amata cassetta con i denari, che nel finale gli viene restituita. Anselmo pagherà le nozze tra Mariana e Cleante e tra Valerio ed Elisa, alle quali Arpagone acconsente, ma senza sborsare denari per la dote.

Scenografia e costumi

Ci troviamo in un interno che potrebbe suggerire un magazzino polveroso dove si mimetizzano ricchezze, accumuli nascosti in vecchie casse nude, niente grazia, civetterie di arredi, sedute riconoscibili, comode. Un luogo dove si avverte l’ossessione del risparmio quasi come una sottrazione di vita. Una scena cubica, volumetrica che potrebbe ospitare la tragedia greca come prestarsi alle labirintiche evoluzioni di una farsa chiassosa e colorata.

Così Chiti ha descritto la scena semplice e spoglia, composta da casse cubiche scure, di varie dimensioni e nel retroplaco una parete asimmetrica con tre aperture dai quali i personaggi entravano ed uscivano di scena. La casa di Arpagone non era una vera dimora borghese, ogni oggetto di arredo menzionato era nascosto accuratamente dal padrone per paura dei ladri, pertanto la scena restituisce l’atmosfera di una casa chiusa e polverosa, quasi abbandonata e surreale.

I costumi dei vari personaggi non riprendevano filologicamente quelli dell’epoca barocca, ma erano utilizzati per tratteggiare i loro caratteri, la loro anima interiore (il nero per l’avaro e vesti bianche e pure per i figli), come un “sostegno drammaturgico che aiuta la definizione e la messa a fuoco di ogni parte del testo”.


I personaggi

Arpagone di Chiti è come la tradizione suggerisce, ma anche ironico, autoironico ed alle volte aggressivo. Una scena degna di nota per comicità e fuori dal testo classico è la chiusura del primo tempo, durante le pressioni di Frosina che incalza Arpagone di aiutarla economicamente a risolvere i suoi problemi. Qui Chiti ha portato all’esasperazione i personaggi, tanto da rompere la quarta parete con Arpagone che cerca aiuto dalla regia per chiudere il sipario, fino a pregare di spegnere le luci in sala pur di farla smettere, creando interazione con il pubblico. Escamotage esilaranti che hanno aggiunto ilarità e leggerezza al dramma di un uomo prima vittima di sé stesso, ma anche odiato dai figli per questo suo essere egoista e avido. Anche l’uso dei rumori di sottofondo di un temporale e l’abbaiare di un cane, hanno ispirato Chiti a inserire frasi e battute comiche e inaspettate attuali: “chi mi ha rubato l’ombrello?”.

I servi hanno qui una parte fondamentale, ognuno di loro ha una propria ironia e psicologia, sottolineata e indagata da Chiti, come il cuoco e cocchiere Mastro Giacomo, che ogni volta ironicamente gioca su questo dualismo, cambiando anche l’abito in scena, mostrando l’assurdità di questa situazione alla quale non si oppone per amore di Elisa.

Nel finale la generosità di Anselmo che si offre di pagare le nozze dei figli viene contrapposta all’avarizia di Arpagone che continua a essere taccagno intimando il commissario, che era stato convocato per trovare il ladro della cassetta, di passare “alla cassa!” per riscuotere, indicando con fermezza e sarcasmo Anselmo.

Il monologo delirante di Arpagone chiude la commedia, durante il quale cade e rimane disteso al suolo sotto il peso delle sue amate monete, condannato della sua avarizia alla solitudine.

Una grande interpretazione di Benvenuti, che ha saputo suscitare l’empatia con il pubblico nei momenti comici e farseschi, ma anche nei dialoghi amari ed intrisi di un senso tragico e drammatico. Applausi.

 

 

 

Il rispettoso tradimento dell'Avaro di Molière
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Il rispettoso tradimento dell'Avaro di Molière
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Per il secondo appuntamento della stagione di prosa, il Teatro Verdi di Pisa ha proposto un evergreen della commedia e della farsa, l'Avaro di Molière, riadattato dal regista e drammaturgo Ugo Chiti con Alessandro Benvenuti nei panni del vecchio taccagno Arpagone.
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Marta Sbranti

Marta Sbranti, classe 1989. Dopo il Diploma presso l'Istituto d'Arte Franco Russoli di Pisa mi sono laureata in Scienze dei Beni Culturali curricula storico-artistico. Ho conseguito la Laurea Magistrale in Storia delle Arti Visive, dello Spettacolo e dei Nuovi Media, presso l'Università di Pisa. La mia tesi di laurea "Musei e Danza" unisce le mie due grandi passioni la danza e l'arte, che coltivo fin da piccola.
"Toccare, commuovere, ispirare: è questo il vero dono della danza".
(Aubrey Lynch)

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