25 Aprile 2024

Parliamoci chiaro. Chi non ha nostalgia dei buoni vecchi tempi pre-pandemia? Ma chi soprattutto non sogna di poter gustare un bicchiere di vino rosso da Nardi abbinato ai suoi squisiti “triangolini”, oppure bere da Sketch uno dei migliori gin tonic della città?
Chiunque, livornese verace o meno, dedito alla vita mondana oppure suo semplice occasionale frequentatore non può che ammettere la voglia e la nostalgia di quei pochi metri di felicità chiamati “Via Cambini”.
Via Cambini non è solo una via dove poter fare l’aperitivo, è l’Aperitivo con la “A” maiuscola.
Eppure gli eventi dello scorso venerdì, passati alla ribalta, addirittura, della cronaca nazionale, hanno diviso il pubblico eretto al ruolo  di “opinionista” del grande reality show in cui si è trasformata ormai la cronaca pubblica grazie all’influsso delle realtà dei social network.
Le posizioni si dividono tra chi afferma di dare ragione ai ragazzi che hanno affollato lo spazio sottostante Universo Sport di via Roma, creando un grande aggregamento, e chi invece li condanna, addirittura augurando loro la morte. Al di là dei fenomeni di polarizzazione che tendono, ormai sempre di più, a creare un dialogo sterile e violento, vorrei portare il lettore a riflettere sul fenomeno “Via Cambini”.
Le posizioni di chi sostiene i ragazzi che non hanno rinunciato all’aperitivo del venerdì sera, fino a bloccare il traffico in Via Roma, sono varie.
Senza poter approfondire questi punti, che richiederebbero un articolo a parte, quello che è sfuggito a molti sono le motivazioni per le quali  la maggioranza delle persone abbia preferito affollare lo stesso luogo, malgrado molti altri bar e locali che forniscono l’aperitivo fossero aperti per fornire le bevute d’asporto.

Le varie motivazioni che avrebbero dovuto spingere le persone ad evitare di assembrarsi malgrado le minori restrizioni della zona gialla sono le seguenti:

1) Esiste una legge che vieta gli assembramenti e per i quali si rischia la multa.
2) La paura di contrarre il coronavirus, paura che dovrebbe essere presente anche se comunque i giovani rispondono meglio alla malattia, in quanto non toglie il rischio di infettare i parenti, nonni e genitori e di poterli portare alla morte o comunque a una grande sofferenza.

Ma allora – senza tirare in ballo alcun assunto etico o morale – se la paura di infettare i propri cari o la paura della legge, e della sanzione prevista da essa, non bastano ad evitare l’assembramento per l’aperitivo, possiamo immaginare che vi sia un’istanza che funga al pari di una legge per i singoli individui, la quale li spinga ad agire con questa condotta al primo timido spiraglio di una riapertura.

Questo, ci tengo a dirlo, non c’entra affatto con il “diritto all’aperitivo”, che può essere esercitato in molti altri locali presenti nella nostra città, i quali, tra le altre cose, stanno passando un grande periodo di crisi, e che meriterebbero di essere aiutati dai consumi dei giovani al pari degli esercizi commerciali presenti Via Cambini.
La possibilità di poter consumare l’aperitivo, non prevede il diritto a potersi aggregare, anzi questa possibilità dovrebbe essere iscritta nell’osservazione del dovere a non fare aggregamenti.

Quello che voglio mettere in primo piano è questa istanza che si frappone alla legge, questa istanza che spinge a non rinunciare all’aperitivo in via Cambini, anche in un periodo nel quale, purtroppo, ci è dato di rinunciare a molte cose, per il bene della collettività.

Cosa c’è che rende le bevute di Sketch e i triangolini di Nardi, qualcosa di più di un semplice bene di consumo?
L’aperitivo in via Cambini non è un semplice aperitivo: è un rito, un rito nel senso in cui il termine latino “ritus” abbraccia e condensa i due significati, sia quello specificamente religioso sia quello più ampio di ‘usanza’ o ‘prescrizione’. 

Riprendendo l’analisi dell’antropologo Ernesto di Martino, un rito, al di là della sua valenza sacra e quindi della sua iscrizione in una qualsiasi cornice religiosa è ciò che aiuta sopportare quella che il famoso antropologo chiama “crisi della presenza”, una crisi identitaria che gli uomini avvertono di fronte alla natura dell’esistenza umana, la quale è inevitabilmente minacciata da alcuni eventi negativi.  Dunque i comportamenti stereotipati dei riti offrono rassicuranti modelli da seguire, e vanno poi a costituire quella che diviene la “tradizione“. La funzione del rituale, in questo caso socialmente definito, può essere assimilato alla funzione che spesso svolge la forma del rituale religioso, oppure a quello patologico che si manifesta nel disturbo ossessivo-compulsivo.
Il rituale è una forma stereotipata, che assume il ruolo apotropaico di scacciare l’angoscia esistenziale e nel rimuovere, ognuno nel proprio modo, le parti di sé, i proprio ricordi o i propri conflitti che recano angoscia.
La forma inautentica del teatro sociale riprende il “si” di  heideggeriana memoria, (“si deve, si fa”) cioè la forma di vivere inautentica che anima gli individui al fine di rimuovere la possibilità esistenziale della morte e nel senso generale simbolico che la morte provoca, cioè quello del limite proprio di ogni individuo. Questa forma viene vissuta sul palcoscenico degli eventi mondani, come quelli di Via Cambini, che in questi giorni hanno suscitato molte polemiche.


 

“The Intrigue”, James Ensor, 1890


Ogni partecipante a questo rito esprime un attaccamento alla propria posizione sociale, un attaccamento alla difesa del proprio Sé che dipende della propria presenza nel raduno, il quale reca sicurezza, malgrado in questo teatro vengano messi in scena dei modi di relazionarsi all’altro spesso molto limitanti e superficiali. Anzi è l’immobilità la chiave essenziale del teatro mondano, il rigido attaccamento ai propri ruoli e alla propria immagine di sé socialmente riconosciuta che va a costituire una messa in scena puramente conservatrice della società, dove la necessità di evadere, soprattutto attraverso “la bevuta”, confligge dialetticamente con la rimarcazione nevrotica e rassicurante della propria identità espressa con la necessità di apparire e fare pettegolezzi (che altro non sono che un modo di poter illusoriamente tener sotto il controllo di un giudizio rassicurante lo svolgimento dei fatti e delle identità altrui).
La grande alienazione social si perpetua nell’utero-gregge del raduno mondano, che lungi dall’essere il segno di una ribellione alla legge, diventa l’espressione dell’assoggettamento ad un’altra legge e ad un’altra necessità: quella di avere sotto controllo la minaccia dell’altro e scongiurare quel sentimento mortifero che, ahimè, è parte integrante della vita stessa.
Così, correndo la voce che le persone accorreranno al rituale, ogni singolo dentro di sé matura una voce che si esprime nei termini “io non posso mancare”, associato ad una tipica smania, che poi altro non è che l’altra faccia dell’angoscia.
Questa voce angosciante ha una valenza normativa, e la punizione che minaccia, è il sentimento di angoscia e di esclusione che ogni individuo sperimenta. Il quadro normativo che contraddistingue l’evento mondano venuto fuori da questa chiave di lettura, riporta molto più vicino di quanto sembri l’aperitivo di via Cambini al “ballo delle debuttanti” di Vittoriana memoria, portato alla ribalta dalla serie televisiva di Netflix, Bridgeton, cioè ad rito di costume con le sue norme sociali.

Se il fine fosse coltivare le relazioni e dedicare del tempo alle persone a cui siamo affezionati, l’aperitivo si potrebbe consumare anche in altri luoghi, si farebbe osservando le leggi del distanziamento e proteggendo i propri cari dal rischio di contagio, che potrebbe essere maggiore nell’affollamento. In questo, la socialità rappresentata sotto le vesti dei fatti di Via Cambini di Venerdì, non è una vera forma di socialità: è la forma più inautentica, è la forma che non tiene conto della cura autentica  verso l’altro, ma paradossalmente ne entra in contrasto. È una forma normativa di stampo adolescenziale di fare socialità, che non contempla le responsabilità verso la legge e verso gli altri, come forma di garanzia dell’Altro in senso assoluto (cioè verso la collettività), responsabilità che dovrebbero assumersi degli individui adulti per essere propriamente tali e non semplicemente dei ragazzini viziati.
Si dirà leggendo questo articolo che il problema in realtà è molto superficiale e molti non si riconosceranno in queste dinamiche.
Appare però evidente, questo agli occhi di tutti invece, quanto sia molto più rassicurante dare la colpa ad altri, vedere il rischio nei vaccini, vedere lo stato come ostile, piuttosto che farsi carico del peso angosciante della realtà che in questo periodo si sostanzia nel rischio di contatto con il virus.
È molto più rassicurante la forma di partecipazione a questo tipo di rituale esorcizzante, e lo è proprio perché questo rito è una forma di negazione.

 Se questo rituale mondano, sempre esistito, oggi crea polemica e divide l’opinione pubblica è perché durante l’emergenza del coronavirus, come in tutti i grandi periodi di crisi, sono state riviste le necessità collettive ed individuali per combattere un rischio maggiore. Eppure non è stata presa in considerazione la necessità del valore che svolgono questi rituali sociali. Non è stata presa in considerazione la necessità della partecipazione e dell’affiliazione nel senso in cui essa è buona, goliardica ed evasiva, ma che necessariamente arriva a confliggere con la legge, in quanto una delle sue funzioni è quella propria del rito, cioè quella di scacciare la paura della morte, dell’esclusione e della solitudine.
Non c’è niente di razionale in ciò, non c’è niente di razionale, non nella scelta di chi non rinuncia all’aperitivo, ma di chi non rinuncia a svolgerlo nel gregge, nella forma del rituale sociale-mondano, rassicurante eppure in contrasto con la realtà “razionale” e scientifica del modo in cui i contagi si rialzano e che ci costringono in questa situazione restrittiva e precaria.

Per questo non si può trattare la movida di Via Cambini come un semplice aggregamento. Se non si vigila e non si interviene vietando attivamente che le persone si aggreghino là come in altri spazi, che verrebbero comunque designati a nuovi luoghi-simbolo del raduno mondano, la movida nei locali della città tenderà ad accentrarsi negli stessi posti.
 La logica non deve essere legata ad una caccia alle streghe diretta verso uno specifico locale, quanto più diretta là dove si va ad accentrare la movida come fenomeno a sé stante.
 Questa privazione non è una privazione della socialità, ma come suddetto è la privazione di una forma di socialità normativa e assoggettate, che può essere ugualmente tossica e che, oggi più mai, confligge con il bene stesso della collettività.
L’augurio è quello di poter tornare a giocare nel grande teatro goliardico di Via Cambini con la stessa spensieratezza di due anni fa, di poterci tornare in sicurezza, senza essere “risucchiati dal rituale” ma riuscendo ugualmente a  vivere a pieno il nostro diritto di dimenticare il peso che troppo spesso affligge la vita di ogni uomo, di poterlo fare coscienziosamente e nella consapevolezza che quella non sia il fulcro della vera vita, né un luogo dove si può esprimere la parte più vera del nostro Sé, ma solo un gioco, un divertimento, a cui possiamo e dobbiamo saper rinunciare.

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Gabriele Bacci

Sono nato nel Luglio del '95. Insegnante di sostegno e psicologo iscritto all'albo della toscana n° 9744, esercito la mia professione da libero professionista e mi sto specializzando in psicoterapia psicoanalitica. Sono appassionato di filosofia e psicoanalisi.

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