25 Aprile 2024

Wunderkammer Cinématographique: Volume 4

Torna, dopo non pochi mesi, Wunderkammer Cinématographique (tradotto: La Stanza delle Meraviglie Cinematografiche) ovvero la rubrica cinematografica curata dal sottoscritto, assieme a quella orma nota come “All you Need is Cinema” che puntualmente, come sempre, esce ogni Sabato mattina.


Al contrario, infatti, della sua gemella di carta e inchiostro, questa serie di pubblicazioni non godranno di una costanza particolare, poiché l’idea, all’origine, era quella di scrivere, di tanto in tanto e per puro svago, un articolo che contenesse all’interno un massimo di 5 film recensiti con un massimo di 500 parolew8E’ sorta così la volontà di dare alla luce un qualcosa che, si spera, possa appagare voi lettori e incuriosirvi, dato che il più delle volte leggersi una recensione di troppe parole o particolarmente lunga può, ai più, apparire dispersiva, ripetitiva o addirittura eccessiva.

Con l’avvento, infatti, della nuova realtà virtuale, mi riferisco ai vari social network, si è sempre più portati a trovarci tra le mani un certo numero di concetti liquidati in un massimo di tre o quattro righe con modalità immediate. Pur considerando, almeno personalmente, la cosa in sé non troppo illuminate o lunsighierà, trovo abbastanza interessante tuttavia cercare di elaborare il modo per riassumere un giudizio in poche righe, affidandomi ad una scarsa capacità di sintesi, quasi a voler fare, qui dunque, della brevità un punto di forza.

Non aspettatevi, perciò, da questa nuova rubrica, un commento su un film scritto in due righe e mezzo, ma siate consapevoli che in un solo articolo pubblicheremo ben quattro recensioni (che poi potrebbero anche essere riprese ed ampliate, dunque inserite nella sezione cinema indipendentemente in futuro) o al massimo cinque. Le pellicole scelte potranno non avere un tema che funga da comune comune denominatore, siate, per questo, pronti ad aspettarvi i più strampalati accozzamenti di idee.

Buona Lettura e Buona Visione!

crimson-peak-tom-hiddelston-character-banner-tom-600x889Crimson Peak 

di Guillermo Del Toro


Il Fantasma è una delle figure più emblematiche ed affascinanti che la letteratura abbia mai creato, sia che si parli di testi relegati a quella antica che a quella moderna, capace di fungere sia come solo elemento estetico o decorativo, che come simbolo di un qualcosa, o per meglio dire, un qualcuno, un tempo vivo, ma adesso non più, tornato dagli inferi per pura casualità o con uno scopo preciso, assumendo un duplice significato carico di una sfumatura metaforica. Si parli di comuni poltergeist, antichi spiriti irrequieti, minacce o semplici ombre che vagano indisturbate e senza meta, appena percettibili dai nostri sensi, la presenza di queste entità ha goduto, fin da subito, di un certo privilegio all’interno di innumerevoli storie e racconti, ed esattamente come nei libri, anche su pellicola il mondo dell’occulto ha influenzato alcune tra le menti più visionarie e creative di sempre, ed una di queste, al giorno d’oggi, è quella di Guillermo Del Toro, il quale, dopo la parentesi fantascientifica del 2013 di Pacific Rim, torna a narrare una storia più intima, meno spettacolare e divertente, estremamente macabra, ma sopratutto figlia di una letteratura ed un metodo di fare cinema di altri tempi, di cui oggi abbiamo pressoché qualche sbiadito ricordo.

Nel dare un giudizio a Crimson Peak bisogna tenere in grande considerazione molti elementi, di vario tipo e natura, che hanno un loro peso nell’economia del lungometraggio. La nuova pellicola di Guillermo Del Toro nella sua interezza non mostra, di fatto, un’originalità tale da gridare al miracolo, sotto il profilo della storia, perché il regista messicano sembra essere tornato più sui suoi passi che desideroso di traghettare lo spettatore verso nuovi orizzonti inesplorati, realizzando un’opera con la quale di certo sapeva di avere gran dimestichezza fin da subito, e non è un caso che, nel prendere in analisi alcune tematiche, la sceneggiatura di questo prodotto sia “vecchia” di dieci anni e risalga a quella fase in cui Del Toro diresse El Laberinto del Fauno e La Spina del Diavolo; tuttavia, muovere delle pesanti critiche a Crimson Peak significherebbe snaturarne il grande valore che risiede all’interno di esso e comporterebbe dare meno importanza ad alcuni aspetti cruciali. La storia degli Sharpe e di Edith sembra essere un sentito omaggio al cinema del passato, ma anche e soprattutto alla letteratura e all’arte del 1800, nella sua sfumatura più estetica, ed è in particolar modo grazie a questi elementi descritti, alla cura posta nelle scenografie, nei set e nell’impianto degli effetti digitali utilizzati, alla fotografia dichiaratamente ispirata ai film di Mario Bava ed alla bravura degli attori, specialmente da tenere in considerazione le performance dei tre protagonisti (specialmente quella di Jessica Chastain e Mia Wasikowka), che mostra di avere un animo nobile e sincero, una pura dimostrazione di amore verso un’arte alla quale Guillermo Del Toro continua a servire molta della sua creatività, amalgamandola a tanti elementi di natura diversa, ma incapaci di stonare in una rappresentazione del mondo che è sempre contraddistinta dall’impronta personale dell’autore.

Crimson Peak è probabilmente la pellicola gotica migliore degli ultimi anni, non tanto per l’elemento narrativo, sebbene sia diretta con straordinaria maestria, ma per l’attenzione e le ispirazioni riposte da Del Toro per un genere che ad oggi sembrava quasi completamente scomparso. Come in Shining di Kubrick anche la casa degli Sharpe, sotto un’interminabile tempesta di neve, gode di vita propria e si appresta a rappresentare l’orrore che si è manifestato all’interno, con quell’argilla rossa che si fa metafora delle morti avvenute tra quelle mura, che cola sul volto dei protagonisti diventando un tutt’uno con il sangue e la violenza che scorre da quest’ultimi sui loro corpi. Coloro i quali amano questo specifico genere di storie, ed aspettavano un racconto di fantasmi con una morale forte, nelle corde del regista messicano, che si ispirasse ai classici cinematografici di un tempo come la Jane Eyre di Orson Welles, o ai pittori romantici ed agli scrittori (e scrittrici) Vittoriani come le sorelle BronteCharles DickensE. A. PoeHenry James e Mary Shelley, rimarrà soddisfatto di Crimson Peak e di tutti quei particolari che ne contrassegnano l’originalità e la bellezza visiva. L’unica grande critica da fare a Del Toro sta proprio nella scelta di non aver proposto un tipo di cinema nuovo, di essersi “accontentato”, a livello di sceneggiatura, di qualche situazione non particolarmente brillante a causa di una base di partenza  poco accattivante o sviluppata a dovere in alcuni frangenti; aspetti che, nel complesso, non rovinano affatto l’esperienza che propone Crimson Peak, la storia di fantasmi migliore di questo 2015, e di certo capace di dare nuova linfa ad un genere quasi scomparso, ma che a tratti fanno sentire il loro peso. Il grande cuore di questa macabra vicenda restano le persone, la loro natura e le loro perversioni, aspetti nettamente più spaventosi dei fantasmi e del sovrannaturale, che condanniamo ignorantemente in quanto differente da noi per natura e perché manifestazione di un qualcosa che non comprendiamo appieno. Il vero orrore, ancora una volta, per Guillermo Del Toro, non viene dai fantasmi, ma da coloro che abbiamo attorno, che lasciamo entrare nelle nostre vite quando, dentro di noi, come in Edith, a dettar legge non è la ragione, ma l’istinto e l’ingenuità.

Voto: ★★★★ (su 5)

Avengers – Age of Ultronavengers-2-poster

di Joss Whedon

L’Era di Ultron è un film tutt’altro capace di vivere in modo autonomo, ed i continui rimandi alle precedenti avventure dei noti paladini, nati dalla mente di Lee, non sono utili unicamente per cogliere qua e là qualche battuta o citazioni. Whedon costruisce e cuce attorno al suo secondo progetto una storia ambiziosa, importante e dotata di un respiro epico senza pari, su cui predilige un montaggio serratissimo, scene d’azione a dir poco esaltanti e momenti ricchi di pathos, senza, tuttavia, dimenticare una caratteristica che ha sempre contraddistinto la natura dei suoi progetti: la velata ironia capace, a sua volta, di trasformarsi in graffiante sarcasmo.

Il secondo episodio con protagonista il gruppo dei Vendicatori non si allontana dai fasti del primo, anzi, pompa ed aumenta in modo maggiore gli attimi salienti, allestisce un teatro in cui ognuno dei protagonisti è combattuto da una forte dualità tra “uomo” e “mostro”, senza tuttavia disprezzare le proprie origini, portando grande rispetto al fumetto di appartenenza.

Avengers : Age of Ultron è un blockbuster in piena regola, un cine-comics puro, che propone un divertimento vero e proprio, senza, tuttavia, cadere mai nella banalità o nella noia. I momenti esaltanti sono serviti su un piatto d’argento, i beniamini più famosi dei fumetti riempiono lo schermo per due ore abbondanti e le battute tipiche di Joss Whedon non mancano di certo. Dietro a tutto questo, purtroppo, vi sono dei tagli eccessivi, in fase di montaggio, su alcuni piccoli dettagli che avrebbero giovato alla storia, aggiunte non effettuate in alcuni casi necessarie, che potrebbero avere un peso nei prossimi capitoli dei Vendicatori. I personaggi di Pietro e Wanda Maximoff sono ben introdotti e tutt’altro che stereotipati, ben interpretati da Elizabeth Olsen e Aaron Taylor-Johnson.
Ultron è una nemesi che affascina non tanto per la propria personalità, piuttosto abbozzata, ma per il concetto che esprime, nell’economia della pellicola, e per il significato che rappresenta nella sua veste metaforica.

Ancora una volta Whedon mette a segno un film coerente con le produzioni Marvel, nel suo spirito e nella sua ottica, e, con tutti i suoi difetti, riesce ad intrattenere senza mai andar oltre, rimanendo, magari, meno “quadrato” ed incisivo del precedente, ma curato ed appagante come molti altri cine-comics.

Age of Ultron è senza alcun dubbio buono lavoro, su cui forse si poteva fare di più in fase di post produzione e non lasciare alcune sviste, ma, in fondo, è possibile accontentarsi tranquillamente anche del risultato finale, fosse solo per sapere se davvero nessuno dei Vendicatori è degno di alzare il martello di Thor.

Voto: ★★★ (su 5)

locandina-Suburra-717x1024Suburra 

di Stefano Sollima

Sotto un’incessante pioggia battente si anima il cuore nero e pulsante della Suburra di Sollima, un affresco che trasuda realismo e violenza a tratti Scorsesiana, che cerca di arrivare laddove solo il Cinema può riuscire, attraverso passaggi con i quali lo spettatore può interagire ed entrare in un tunnel di critica politica/sociale capace di far tremare le fondamenta della nostra società.

Un biglietto da visita non da poco, quello che si appresta a presentare l’ultimo lavoro del padre di due tra le serie tv made in Italy più apprezzate degli ultimi anni, Romanzo Criminale e Gomorra, e tante sono le premesse annunciate da essere mantenute.

Roma è un teatro di vita non molto lontano da quelle rappresentazioni sanguinarie e tragiche di un tempo, dove non sembra battere mai il sole ed ogni cosa si muove nell’ombra; ed è proprio dalla pioggia, che abbraccia ogni notte, dai tuoni e dai fulmini che Sollima inizia a costruire un quadro decadente e immorale di una capitale al limite dell’umano, dove se da un lato mette in mostra tanti dei cliché del genere, dall’altro si sofferma su particolari che conferiscono al prodotto quel qualcosa di originale ed inedito, che in definitiva ci porta a promuoverlo, pur con qualche piccola riserva.

Tutto gira attorno a nuove costruzioni, appalti e potere, in quella Ostia ove Pasolini ha tirato l’ultimo respiro, tra quelle spiagge di giorno prese d’assalto dalle persone comuni, mentre al calar delle tenebre vedono salire le ombre di efferati omicidi, incontri clandestini e sparatorie tra gang rivali. Dietro a tutto ciò, come di consueto, il bisogno, la necessità, in questo caso del nuovo Re di Roma, chiamato Il Samurai, interpretato da un efficiente Claudio Amendola, di stringere alleanze con persone potenti del
mondo politico e religioso, ancora una volta amalgamati, linee parallele dello stesso binario, poteri, però, che alla fine si vedranno orfani di due grandi figure paterne di spicco: da una parte il presidente del consiglio, dall’altra il Papa.

Suburra, di Stefano Sollima, dedicato da quest’ultimo al padre scomparso recentemente, è uno dei più audaci film dell’anno, e, probabilmente, un gangster-movie che rimarrà impresso nella testa di molti per parecchio tempo, sorretto da interpretazioni all’altezza da parte dell’intero cast, una regia attenta, coerente con le altre produzioni del regista, carica di allegorie e citazioni, ed unita ad una precisa impostazione scenica interessante ed elegante, mai eccessiva o invadente. Rimanendo per la maggior parte del tempo su alti livelli narrativi, regalando finalmente a noi tutti una Roma particolarmente oscura, pericolosa, inafferrabile e incontrollabile, priva di sequenze diurne, sempre affogata da una pioggia perenne, che invece di lavare i peccati dalla faccia degli uomini sembra infangarli fino a sommergerli, l’ultimo lungometraggio di Sollima viene a mancare unicamente nella decisione di non voler correre troppi rischi nel finale, purtroppo non all’altezza rispetto al resto del film, che sgonfia l’entusiasmo e garantisce a Suburra l’etichetta di pellicola di assoluta buona qualità, allontanandola dall’eccellenza, opinione che avranno, in particolar modo, coloro che sono già conoscitori della visione personale del regista.

Voto: ★★★ (su 5)

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di Denis Villenueve

Districarsi in un ginepraio come può essere quello dei film ambientati tra il confine Statunitense e quello Messicano è roba tutt’altro che semplice. Autori di nota fama e di grande maestria hanno cercato, negli ultimi vent’anni, di realizzare lungometraggi degni di essere ricordati, scadendo più e più volte in una ripetitività eccessiva capace di non far decollare la storia, portando il loro prodotto nell’oblio più nero.

Era un rischio davvero non da poco, quello di cui si è fatto carico Denis Villenueve, che nel 2013 aveva dato alla luce lo struggente, ma straordinario Prisoners con protagonista Hugh Jackman, nel ruolo di un padre a cui viene rapita la figlia, intenzionato di farsi giustizia da solo e deciso a non fidarsi della polizia di stato, nella più rurale America conservatrice; l’impianto del primo film sul suolo americano aveva messo in risalto le capacità tecniche del regista canadese, il quale, negli anni precedenti, si era preso a cuore il conflitto religioso fondamentalista con il lavoro La Donna che Canta, grazie al quale può vantare una nomination ai premi Oscar nella propria carriera.

Villenueve continua ininterrottamente la sua personale critica verso gli U.S.A., rivestendo l’America non solo di un ruolo scomodo, ma conferendole quasi una valenza guerrafondaia insita in essa quasi quanto in coloro che cercano di combattere in nome della pace e della giustizia. Se, infatti, altre pellicole sottolineavano come gli Stati Uniti fossero nati attraverso le guerre ed il sangue, con Sicario si torna a parlare di come tutt’ora, il paese etichettato per eccellenza come quello della libertà e delle possibilità, offra all’interno di se stesso tutto un campionario di comportamenti lontani anni luce da una qualsiasi forma di moralità e come particolari territori si dimostrino alienati dal mondo interno, risultando solo lande desolate sulle quali continua a sgorgare sangue innocente.

Esattamente come in Prisoners, dove si denunciava quel tipo di giustizia privata, fatta dall’uomo comune, inevitabilmente destinata a tramutarsi in vendetta, accostandola ad un altro tipo di giustizia, quella legata alla legge pura e semplice, Villenueve anche stavolta coglie tematiche che puntano sull’effimero e superficiale controllo che una nazione pensa di avere sul proprio nemico (molte intestino, che esteriore), dimostrando, al contrario, la propria debolezza e annientamento, in un mondo cinico e spietato dove non esistono regole ed a regnare è solo ed unicamente il caos.

Crudo, realistico, freddo e letale, Sicario è una pellicola da non perdere, una delle migliori su cui sarà possibile posare gli occhi durante la fine di quest’anno cinematografico, uno dei momenti più alti del 2015, un attestato di settima arte coinvolgente, sorretto da un ritmo serrato con il quale Denis Villenueve, ancora una volta, mostra di non aver pudore nell’aver voglia di raccontare la realtà dei fatti, senza retorica e distorsione, priva di enfasi o artifici. Un po’ come quando, per cogliere il drammatico senso della realtà che ci circonda, dei bambini che giocano a pallone la domenica  e sentono arrivare dal nulla degli spari, consci che per loro, quelli, rappresentano la normalità quotidiana.

Voto: ★★★★ (su 5)

 

 

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Claudio Fedele

Nato il 6 Febbraio 1993, residente a Livorno. Appassionato di Libri, Videogiochi, Arte e Film. Sostenitore del progetto Uninfonews e gran seguace della corrente dedita al Bunburysmo. Amante della buona musica e finto conoscitore di dipinti Pre-Raffaelliti.
Grande fan di: Stephen King, J.R.R. Tolkien, Wu Ming, J.K. Rowling, Charles Dickens e Peter Jackson.

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