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L’Iraq attacca i curdi e si riprende Kirkuk

Dopo uno stallo durato circa tre settimane, il governo iracheno di Haider Al-Abadi ha rotto gli indugi ed ha ordinato alle sue forze armate di riprendere Kirkuk con la forza, nonostante gli inviti alla moderazione provenienti tanto dagli Stati Uniti quanto dalla Russia.

 

La città, situata al margine meridionale del Kurdistan iracheno, era, un tempo, popolata in larga maggioranza da curdi, ma è stata in seguito arabizzata coattivamente dal regime di Saddam Hussein, generando, quindi, un’ambiguità di fondo sulla sua appartenenza non solo etnica, ma anche politica.

A livello strettamente giuridico, essa rientrerebbe nella sovranità diretta del governo federale, ma, nel 2014, nelle ore più drammatiche dell’offensiva dello Stato Islamico, le truppe irachene si erano date alla fuga e la città era stata salvata solo grazie all’intervento dei peshmerga curdi. Da quel momento in poi, Kirkuk era stata gestita ed amministrata dal governo regionale di Erbil, in totale autonomia rispetto a Baghdad.

In seguito, la guerra contro il Daesh, portata avanti congiuntamente da entrambe le fazioni, aveva fatto passare in secondo piano la querelle relativa a Kirkuk, la quale, giova ricordarlo, ricopre un’importanza strategica, poiché nel suo sottosuolo si trovano due terzi dell’intera riserva petrolifera del Kurdistan; di fatto, l’abitato rappresentava, secondo le idee del presidente curdo Masoud Barzani, la cassaforte sulla quale si sarebbe fondata la nuova entità statuale scaturita dal referendum indipendentista del 25 settembre.

In seguito a tale avvenimento, Al-Abadi, spalleggiato dai suoi protettori iraniani e dalla Turchia di Erdogan, con quest’ultimo terrorizzato all’idea che, oltre al già de facto autonomo Rojava siriano, potesse sorgere un altro Kurdistan indipendente ai suoi confini, ha cominciato immediatamente a minacciare il governo di Barzani, lasciando intendere di riservarsi l’esercizio di un’opzione militare per scongiurare la secessione di Erbil.

Nelle tre settimane successive, si sono susseguiti colloqui bilaterali e trilaterali, sia a livello governativo che militare, tra rappresentanti iracheni, turchi e iraniani, con tanto di esercitazioni combinate delle rispettive forze armate.

La posizione più ambigua, come al solito, era ed è rivestita da Erdogan, da un lato oppositore irriducibile di qualunque velleità autonomista dei curdi di tutto il Medio Oriente e, dall’altro, principale partner commerciale del Kurdistan iracheno, anche alla luce di un proficuo rapporto personale e d’affari con lo stesso Barzani, leader del partito PDK, tendenzialmente filo-turco e, pertanto, da sempre inviso ai curdi turchi del PKK. Per questo motivo, dunque, l’attore più preoccupato da una eventuale secessione dall’Iraq da parte di Erbil si è rivelato, paradossalmente, proprio l’Iran, il quale ha inviato a Sulaymaniyah, roccaforte dell’Unione Patriottica del Kurdistan, secondo partito regionale, storicamente vicino a Teheran, il generale Qasem Soleimani, comandante delle Unità Quds dei Guardiani della Rivoluzione e demiurgo di tutte le milizie sciite dispiegate nell’area.

Grazie al sapiente lavoro diplomatico di Soleimani, tra i principali artefici della vittoria di Assad nella Guerra Civile Siriana, si è generata una spaccatura, all’interno della succitata PUK, tra indipendentisti favorevoli al referendum e “moderati”.

 

Ed è stato proprio in tale breccia che, tra domenica e lunedì, si sono infilate come lame le truppe irachene della IX Divisione Corazzata, affiancate dai paramilitari sciiti delle Forze di Mobilitazione Popolare, ormai inquadrati e stipendiati come unità regolari da Baghdad.

Pare, infatti, che alcuni reparti peshmerga fedeli alla PUK e leali a Pavel Talabani, figlio ed erede del capo storico del partito, Jalal, da poco deceduto dopo una lunga malattia, si siano fatti da parte, disertando e lasciando passare l’esercito governativo. Nell’arco di poche ore, i combattenti curdi che hanno resistito sono stati spazzati via e l’intera città di Kirkuk, preceduta dall’aeroporto e dagli strategici pozzi di petrolio, è stata riconquistata dal governo.

Il presidente Barzani, spiazzato, ha parlato senza mezzi termini di tradimento ed ha lanciato strali all’indirizzo della PUK, di Al-Abadi e dell’Iran, promettendo vendetta, ma, al netto della propaganda, la sua situazione appare assai delicata. L’ipotesi di avvalersi del referendum per staccarsi dall’Iraq, ponendo Baghdad di fronte al fatto compiuto, era indubbiamente valida sulla carta, ma, al tempo stesso, rappresentava un notevole azzardo, poiché presupponeva l’assenza di una reazione militare da parte del governo e degli altri attori regionali, tutti, per un motivo o per un altro, ostili all’idea di un Kurdistan indipendente.

A parere di chi scrive, Masoud Barzani ha commesso un grave errore strategico, probabilmente il primo della sua lunghissima carriera da leader di Erbil; il momento più propizio per dichiarare unilateralmente l’indipendenza, infatti, era sicuramente il momento clou dell’offensiva per liberare Mosul dallo Stato Islamico. Alle prese con l’accanita resistenza dei miliziani islamisti, il governo federale non avrebbe mai distolto truppe dal fronte per fronteggiare i peshmerga e, prima di intervenire, avrebbe lasciato trascorrere mesi, fondamentali per fortificare i confini del nuovo Stato e, soprattutto, per assicurarsi ex ante la lealtà di tutte le sue anime, comprese quelle riottose della PUK.

Resta da chiedersi, adesso, cosa sarà del Kurdistan iracheno, privato della quasi totalità delle sue riserve petrolifere. L’impressione è che verrà intrapresa la strada del negoziato, con la concessione da parte di Baghdad di una maggiore autonomia in cambio di un rientro, verosimilmente graduale, di Erbil nell’alveo dello Stato federale.

 

 

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