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Steve McQueen un regista tra prigione e sesso dipendenza

Tempo fa scrissi la recensione di Shame, film che prende in considerazione la dipendenza sessuale (tradotto in italiano il titolo vuol dire semplicemente “Vergogna”) nonché secondo lavoro realizzato da McQueen e Fassbender, coppia che nel 2008 aveva portato alla luce Hunger.  Oggi torno a parlare di questo regista, il cui nome non può ricordare quello Steve McQueen, attore, diventato icona del cinema e leggenda per gli appassionati del grande schermo e non. Sembra quasi uno scherzo del destino che il regista inglese si sia voluto dedicare a quest’arte, come a voler portare sulle proprie spalle l’eredità di questo nome e proponendo al pubblico film, possiamo dirlo, di non facile impatto. Si potrebbe parlare parecchio di quest’uomo apparso sulla scena del cinema mondiale solo negli ultimi anni, sebbene i lungometraggi da lui girati sono solo due, se non prendiamo in considerazione i lavori precedenti fatti in patria e il prossimo film che uscirà nelle sale alla fine del 2013.
Perché il suo cinema merita di essere visto? In un modo assai semplice e che potrebbe sembrare stupido all’apparenza, mi viene da rispondere a questa domanda con 4 parole: è un bel Cinema.
Non mi volete credere? Guardate voi stessi i suoi lavori e guardate ciò che la critica dice riguardo a ciò che questo ragazzo ha fatto con soli due lungometraggi e avrete, forse, una vaga idea di quel che ho appena sottolineato. McQueen non si limita a girare un film, in esso inserisce tutta la sua poetica e la sua forza che esprime in varie maniere, unendo più e più volte la poesia alla brutalità, l’orrore al coraggio, ma non in modo retorico o forzato, bensì riempiendo il film di quell’aspetto drammatico e lirico che lo rende un cult a tutti gli effetti.
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Hunger è la prima collaborazione con Fassbender, che tutti noi abbiamo visto in questi anni recitare in in X-Men: First Class o Prometheus, il quale sembra non voler smettere di stupire quando si tratta di mettere in gioco non solo il proprio talento, ma anche il proprio corpo al servizio della storia. Così Hunger (2008), opera prima di McQueen e premiata con la palma d’oro a Cannes, riprende gli ultimi giorni di vita di Bobby Sands e mette in luce le drammatiche condizioni in cui vivevano i prigioni politici nel carcere di Long Kesh e quello che fu etichettato come lo sciopero delle coperte e dello sporco seguito poi dallo sciopero della fame, attraverso il quale proprio Sands trovò la morte dopo  pochissime settimane assieme ad altri suoi compagni.
Tecnicamente il prodotto è eccezionale, si tratta di una regia ferma, solida e del tutto in linea con quanto messo in scena dalla storia. Non ci sono momenti deboli nei 90 minuti complessivi e l’unico dialogo a cui si assiste dura quasi 20 minuti, realizzato in un unico piano sequenza. Ci voleva del talento e del coraggio per mettere insieme un film come questo e McQueen dimostra entrambe le cose, lo fa con i tanti momenti di silenzio, attraverso un film che nel silenzio stesso mette in luce la denuncia e l’orrore di quanto è avvenuto in passato con inquadrature sempre precise e di forte impatto. Se qualcuno poi vuole vedere e assistere alla più grande e sentita prova di recitazione del 2008 (o una delle più grandi) si veda il film per ammirare la bravura di Michael Fassbender, che per questa pellicola perse ben 30 chili pur di recitare, senza controfigure, le ultime scene. E’ un film in cui le azioni e i corpi, intesi letteralmente come presenza fisica, dominano la messa in scena e il quadro generale. A tutto questo si unisce un buon reparto tecnico, un ottima fotografia unita ad una durata minima che dovrebbe invogliare chiunque a vedere la pellicola. Consiglio caldamente di perdere un ora e mezzo per questo film ammesso che abbiate la forza e la curiosità per immergervi in questa (tragica) storia.
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Il secondo lungometraggio, uscito nel 2011 e sempre con protagonista Fassbender, è Shame, un lavoro che mette al centro un uomo afflitto dalla sesso dipendenza. Visto che di quest’opera ne ho già parlato ed ho già fatto la recensione (che potete trovare nella sezione “un film a settimana”), ho deciso che prenderò (forse per la seconda volta, ma ripetere in fondo non fa mai male!) in considerazione gli aspetti che mi hanno interessato di più. McQueen in questo film osa molto meno rispetto al precedente, ma è sempre capace di realizzare un prodotto di grande livello, prendendo spunto da un male comune e ambientandolo ai giorni nostri con protagonista un uomo che passa le proprie giornate a lavoro, in ufficio nel pieno centro di New York, indossando una maschera che nasconda la sua vera natura. Le abitudini di Brandon vengono completamente stravolte quando arriva la sua (problematica) sorella, che cerca in lui una figura di conforto e protezione. Parte così un viaggio che porterà tutti noi a scoprire non solo la parte più oscura e tetra della Grande Mela, ma sopratutto quella dell’animo umano. Così la regia attenta del regista inglese è capace, già nelle prime scene, di mettere in luce le abitudini, le debolezze, le paure e la natura del protagonista giocando sugli sguardi e sulle azioni da lui fatte. Non è tanto la denuncia a fare da base al film, quanto la rappresentazione di una storia tanto drammatica quanto reale. Quello che forse mancava (in parte o solo in apparenza) ad Hunger qui lo troviamo espresso in modo molto esplicito, vale a dire l’unione tra brutalità e bellezza che è possibile percepire non solo attraverso le immagini, ma sopratutto con le orecchie e con il sonoro riempito di spasmi e sospiri accompagnato da una colonna sonora più volte malinconica (capace di trasmettere però la condizione emotiva della scena in cui inserita) accompagnata da frammenti di musica classica. In una delle ultime scene si è partecipi dell’abisso in cui è caduto il protagonista e la successiva vergogna che prova per quello che è, accomunata dalla sua totale impotenza. Le scene esplicite non mancano e sono presenti in numero considerevole, ma il sesso non è fine a se stesso e sempre è metafora o strumento per sottolineare la debolezza dell’animo umano.
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Finisco questo articolo puntualizzando che, per quanto mi è concesso dire, vedere o assaporare il cinema di McQueen è un qualcosa che al giorno d’oggi porta a pensare che i film non sono fatti solo ed unicamente per un fine commerciale e per riempire le tasche dei produttori e degli studios. In quest’epoca ci sono ancora tanti registi e tanti autori capaci di realizzare pellicole che valgono realmente qualcosa, che lasciano in noi un sentimento, sia esso nostalgico o melanconico e che portano a riflettere mettendo al centro di tutto l’uomo e l’animo umano. Godiamoci questi lavori indipendenti fino a quando ci sarà possibile, forse un giorno la magia del Cinema si perderà dietro ai grandi blockbuster e la massima ambizione di coloro che entreranno in una sala sarà solo di vedere esplosioni e dialoghi ricchi di retorica accompagnati da scene di sesso senza alcuna logica, supportate da attori fin troppo pagati per arrivare a concepire l’essenza della recitazione. Ci auguriamo, o almeno il sottoscritto se lo augura, che Steve possa offrire sempre bei film in futuro.
Claudio Fedele
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