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“Trilogia della città di K.” – La recensione

Ciò che mi ha spinto a leggere il libro è stato lo spettacolo interpretato da Silvia e Luisa Pasello, di Virgilio Sieni, attuale direttore del settore danza della biennale di Venezia, tratto proprio da questo romanzo. Le due interpreti non sono però ballerine ma attrici (chi conosce l’ormai celebre coreografo contemporaneo saprà che ha lavorato con bambini, vecchi, ciechi, madri, stranieri e nessuno di questi aveva mai avuto rapporti con la danza prima di incontrarlo).
Ovviamente, visto che mi ha spinto a comprare e leggere un libro, l’ho trovato uno spettacolo meraviglioso ed emozionante (non mi si fraintenda, uso quest’ultima parola nel senso letterale).
Certo non è uno spettacolo che vi farà andare via sereni e felici di vivere la vostra vita, piuttosto vi rimanderà a casa con le viscere contorte e un profondo senso di vuoto.

 

La trilogia della città di K. Di Agota Kristof racconta la storia di due gemelli che durante una guerra vengono portati nella “piccola città” dalla madre, a casa della nonna.
Nonostante questa guerra sia storicamente imprecisata incombe e rimane fortemente presente in tutto il libro.

 

La storia si sviluppa in un luogo e in un tempo non specificati ed intorno a due personaggi di cui il nome si viene a conoscere solo nella seconda parte del libro (“La prova”).
L’omissione dei nomi e dei dettagli sembra che stia a sottolineare come le guerre, a caratteri generali, si somiglino tutte.

 

La scrittura asciutta, distante e fredda della Kristof viene riflessa nelle personalità dei due gemelli che tentano (riuscendoci o no, questo lo deciderà il lettore) di scrivere e vivere le cose in maniera distaccata e oggettiva: “Bene o Non bene. Il criterio è semplice: il tema deve essere vero. […] Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare di usarle e attenersi a una descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, e cioè alla descrizione fedele dei fatti”.
Vista la vita della scrittrice,si potrebbe pensare che il libro sia ambientato in una città dell’ est Europa, Agota Kristoff è infatti una scrittrice ungherese scappata in Svizzera dalla repressione sovietica , tuttavia non c’è niente che ci suggerisca il luogo preciso della storia.

 

Sin da piccoli i due gemelli si allenano ad avere un atteggiamento repressivo delle emozioni, persino e sopratutto del dolore: <<Siamo nudi, ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo ad ogni colpo: “Non fa male”. Colpiamo più forte, sempre più forte. […] Quando nonna è arrabbiata e grida, noi le diciamo: “smettetela di gridare nonna, picchiate invece”. Quando ci picchia noi le diciamo: “Ancora nonna, ancora” >>.

Questo soffocamento delle emozioni diventa eclatante nella seconda parte della trilogia “La prova”, in cui Lucas tenta di ricominciare una nuova vita (non di andare avanti) dopo che il gemello è riuscito a scappare nella grande città.
Sembra che Lucas sia davvero riuscito a ricominciarla sotterrando ogni ricordo (i riferimenti al gemello sono solo un paio) nonostante gli scheletri appesi in cucina della madre e della sorellina, morte a causa di una granata davanti alla casa della nonna.

 

Nonostante le frasi brevi e fredde è inevitabile che il lettore sin dalla prima pagina si senta parte della storia.

Io sono la vicina, sola, con il labbro leporino, che ha rapporti sessuali con gli animali.
Io sono il disertore che ha paura, che vuole tornare a casa.
Io sono il calzolaio ebreo, destinato alla deportazione.
Io sono il curato con gli scheletri nell’armadio.
Io sono la fantesca, gentile e pedofila.
Io sono la cugina, che passa il tempo a guardare il cielo piangendo.
Io sono la madre, costretta a lasciare i miei due figli da soli. Morta davanti a loro con in braccio mia figlia appena nata a causa di una granata
Io sono Jasmine, rimasta incinta di mio padre.
Io sono Peter N., segretario del partito, gay.

 

Il libro è un intrecciarsi di storie e personaggi estremamente realistici e che, proprio per questo, ci fanno rabbrividire.
Potremmo pensare che la guerra è lontana, che queste storie siano lontane da noi, ma poi sorge il dubbio che, proprio come nel libro, le persone intorno a noi ci nascondano le loro vite.
Consiglio il libro a chiunque. Nonostante molti di voi possano essere scoraggiati dalla scrittura gelida e esageratamente coincisa della scrittrice ungherese, se troveranno il coraggio e la forza per andare avanti tra le parole taglienti, piano piano disinfetteranno (sempre pur con dolore) le ferite iniziali.

 

 

 

Rosa Caramassi

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