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Aspettando “Simon Boccanegra”

Sabato 10 e domenica 11 ottobre si inaugurerà la nuova Stagione Lirica del Teatro Verdi di Pisa con l’opera Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi. La scelta di affidare al Boccanegra l’apertura della Stagione 2015-2016 non è affatto scontata, poiché non si tratta di un’opera “popolare” e nemmeno frequentemente rappresentata. A dispetto di ciò, si tratta di un’opera eccezionale, una delle migliori opere verdiane in assoluto e trovo encomiabile il fatto che la direzione artistica del Teatro Verdi abbia deciso di inaugurare la propria Stagione con una composizione intelligente e coraggiosa, decisione che va ad inserirsi nell’ottica di un cartellone operistico – come ho detto nello scorso articolo – all’insegna dell’intelligenza e del coraggio e del voler offrire al proprio pubblico non solo contenuti validi, ma anche nuovi stimoli.
Tuttavia, come già spiegato sopra, non è un’opera molto conosciuta, quindi è opportuno chiarire un paio di cose, soprattutto per meglio fruire della rappresentazione.

La genesi
La prima versione del Simon Boccanegra risale al 1857, scritta immediatamente dopo La Traviata ed I Vespri Siciliani. Verdi rimase colpito dalla lettura del dramma Simòn Bocanegra di Antonio Garcia Gutierres, soprattutto per l’idea di un dramma privato sullo sfondo di una guerra civile, e stese personalmente un libretto in prosa affidandone la versificazione a Francesco Maria Piave (anche se alcuni passi furono segretamente riadattati dal poeta Giuseppe Montanelli). Nonostante l’impegno di Verdi e dei due poeti e la presenza di un cast di prim’ordine per la premiére, l’opera fece irrimediabilmente fiasco. La colpa di ciò risiede probabilmente nella tinta dell’opera, eccessivamente cupa e monotona, nell’uso massiccio del canto declamato e nella trama oltremodo complicata (si racconta che un musicologo dell’epoca abbia raccontato di aver dovuto leggere i libretto almeno sei volte prima di venirne a capo).

La seconda versione
Dopo l’Aida, Verdi si ritirò dalle scene e si chiuse in un lungo silenzio, che solo l’insistenza dell’editore Giulio Ricordi riuscì a spezzare. Nel 1879 iniziarono le trattative tra Verdi, Ricordi ed il e librettista Arrigo Boito per la composizione di Otello. Tuttavia Verdi non volle sentire ragioni, quindi Ricordi, per ammorbidire il compositore, gli propose di riprendere un’opera vecchia, stenderne una seconda versione e farsi aiutare da Boito per gli aggiustamenti al libretto. Inutile dire che Ricordi vinse facilmente le ritrosie di Verdi e che l’opera prescelta fu il Simon Boccanegra.
È difficile quantificare i tagli, i cambiamenti, gli inserimenti apportati da Verdi e da Boito nella seconda versione, ma su una cosa non v’è dubbio alcuno: la versione del 1881 del Boccanegra risulta essere un’opera totalmente diversa da quella della prima stesura. Resta sempre un’opera assai cupa, ma al suo interno contiene tinte molto diverse: dal dolcissimo Preludio del Prologo, alla disperazione di Simone per la morte dell’amata, la folla festante che lo acclama Doge di Genova, l’amore di Amelia e Gabriele, la nobiltà di Fiesco, il furore di Simone, l’anatema… Senza considerare l’estrema modernità di quest’opera, non tanto nel canto quanto nell’orchestrazione. Si prenda, ad esempio, il Preludio al Prologo: la delicata sinuosità del fraseggio richiama il mare cristallino, ma anche quella che potrebbe essere una Sonata di Shostakovich. O ancora l’accompagnamento orchestrale nell’aria Come in quest’ora bruna, decisamente all’avanguardia. Questi sono solo due esempi, anche abbastanza scontati, ma in tutta l’opera sono rintracciabili passi di una modernità sconvolgente (cosa che rende anche chiaro il perché ai tempi di Verdi non piacque molto neanche la seconda versione).
In quest’opera Verdi gioca al meglio tutte le sue carte, sfoderando un’orchestrazione d’avanguardia ed una drammaturgia avvincente, ricca di colpi di scena, contrasti, giochi tra cantanti presenti sul palco e dietro ad esso che conferiscono al tutto una forte nota di realismo (come, per esempio, la folla che tumulta fuori dal Palazzo Ducale).
Un altro grande punto di forza dell’opera è la straordinaria capacità di Verdi di rendere gli animi dei personaggi con i colori orchestrali. Un esempio degno di nota è l’uso esclusivo dei componenti gravi dell’orchestra (clarinetto basso, fagotti, corni, tromboni, viole, violoncelli e contrabbassi) nella scena finale dell’Atto I, dove Doge e corte maledicono il rapitore di Amelia.
Molto convincente anche il libretto di questa seconda versione,da cui sono stati eliminati tutti i fronzoli e le complicazioni della prima versione – decisamente troppo intricata – snellendo l’azione e rendendola assai chiara.

La trama
La trama della prima versione si articolava in quattro corposi Atti, Boito, per la seconda, ha suggerito un breve Prologo e tre Atti. Di questi tre atti il più corposo è il primo, indubbiamente pensato per essere il momento più spettacolare ed intenso di tutta l’opera.

Prologo
Siamo nel 1339 e a Genova si discute per l’elezione del Doge. Il popolano Paolo Albiani sostiene l’ascesa di Simone Boccanegra, corsaro al soldo della Repubblica, aspettandosi in cambio denaro e potere. Entra in scena Simone, angosciato perché da tempo non ha più notizie di Maria, la donna amata da cui ha avuto una figlia. Per aver avuto una figlia fuori dal matrimonio, Maria è tenuta prigioniera dal padre, Jacopo Fiesco, nel proprio palazzo. Paolo prospetta a Simone che, una volta eletto Doge, sarebbe riuscito ad ottenere la mano di Maria, quindi Paolo convince il popolo a votare Boccanegra e tutti escono di scena.
Subito dopo Jacopo Fiesco esce dal palazzo: voci fuori scena intonano un Miserere. Maria è morta. Entra nuovamente Simone che, trovandosi davanti Fiesco, gli chiede perdono e di concedergli Maria. Il nobile pone come condizione la consegna della nipote, ma la bambina è fuggita via dalla casa della nutrice cui Simone l’aveva affidata. Allora Fiesco si allontana e, nascosto, osserva Simone entrare nel proprio palazzo dove rinviene il cadavere dell’amata. Nel momento i cui il corsaro grida disperato «Maria!», giunge il popolo e lo acclama nuovo Doge.

Nei ventiquattro anni che intercorrono tra il Prologo e l’Atto I Paolo diviene il favorito del Doge, Boccanegra esilia i capi dei patrizi e ne confisca i beni. Fiesco, per sfuggirgli, si finge morto, si rifugia presso la famiglia Grimaldi e cambia il proprio nome in Andrea Grimaldi. Fiesco e la famiglia Grimaldi, inoltre, trovano una bambina nel convento in cui era morta Amelia, la figlia di Grimaldi, e decidono di adottarla e darle lo stesso nome, ignari del fatto che sia la figlia di Boccanegra. Cresciuta, Amelia si innamora di Gabriele Adorno, patrizio che congiura contro il Doge plebeo.

Atto I
Quadro I
Amelia attende Gabriele in riva al mare, il giovane giunge e lei lo supplica di non aderire alla congiura. Nel frattempo Pietro annuncia l’arrivo del Doge ed Amelia teme che venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo. La fanciulla confessa a Boccanegra di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata da Paolo che mira solo alle sue ricchezze. Inoltre gli rivela di essere orfana. Simone si insospettisce e, incalzandola con le sue domande e con l’aiuto di un medaglione con il ritratto di Maria, scopre che si tratta della figlia che credeva perduta.
Scoperto questo, il Doge ordina a Paolo di rinunciare ad Amelia. Paolo, per vendicarsi, organizza il rapimento della giovane.

Quadro II
Intanto a Genova si è riunito il Senato per consigliare il Doge: egli desidera la pace con Venezia, ma Paolo chiede la guerra. Dalla piazza giunge del trambusto e Simone scorge Gabriele inseguito dalla plebe. Pietro teme che il rapimento di Amelia sia stato scoperto consiglia a Paolo di fuggire, ma il Doge ordina che tutte le porte del palazzo siano chiuse, dopodiché fa entrare il popolo. La folla trascina con sé Fiesco e Gabriele che confessa di aver trucidato l’usuraio Lorenzo, l’uomo che ha rapito Amelia su ordine di un patrizio ignoto. Detto questo, tenta di uccidere Simone, ma Amelia si frappone fra i due e chiede al padre di salvare l’amato e riconosce in Paolo il mandante del rapimento. Il Doge decide di mantenere agli arresti Gabriele nel palazzo fintantoché non sia chiarito l’intrigo e, intuendo la colpevolezza di Paolo, lo costringe a maledire pubblicamente il mandante del rapimento di Amelia.

Atto II
Paolo, dopo essere stato bandito, versa del veleno nella tazza di Simone e – non contento di questo – chiede a Fiesco di assassinare il Doge nel sonno, ma questi rifiuta sdegnosamente. Allora insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone e quando la giovane giunge, Gabriele la accusa di tradirlo col Doge. Nello stesso momento viene annunciato da una tromba l’arrivo di Boccanegra e Gabriele si nasconde. Amelia confessa al padre di amare Gabriele e lo supplica di salvarlo; il Doge, combattuto, la congeda e beve dalla tazza, notando che l’acqua ha sapore amaro. Dopo pochi istanti si addormenta e Gabriele tenta di ucciderlo, ma ancora una volta viene bloccato da Amelia. Il Doge si risveglia, si scontra con Gabriele e gli svela che Amelia è la propria figlia.
Gabriele chiede perdono ad Amelia ed offre al Doge la propria vita, quando giungono dall’esterno rumori di tumulti: i congiurati assaltano il palazzo. Allora il Doge chiama le proprie guardie e, prima di respingere gli aggressori, concede a Gabriele la mano di Amelia.

Atto III
La rivolta è fallita e Paolo è stato condannato a morte. Mentre si reca al patibolo, questi rivela a Fiesco di aver avvelenato Simone ed ascolta inorridito il coro nuziale di Amelia e Gabriele.
Entra il Doge che cerca refrigerio dal malessere respirando aria di mare dal balcone. All’improvviso si avvicina Fiesco nei panni di Andrea Grimaldi che gli annuncia che la sua morte è vicina. Simone riconosce l’antico nemico ma, nobilmente, gli rivela che Amelia non è altri che sua nipote. La commozione pervade Fiesco che concede il perdono al Doge e comprende l’inutilità del suo odio.
Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simone invita Amelia a riconoscere in Fiesco il nonno, benedice gli sposi e muore sereno dopo aver proclamato Gabriele nuovo Doge di Genova.

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