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“Ciò che inferno non è” – Alessandro D’Avenia e l’educazione

La conoscenza del metodo educativo scout mi ha insegnato che ci sono concetti che per rimanere meglio impressi non devono essere spiegati, ma lasciati come esperienze aperte, esperienze in cui ciascuno possa esser libero di ritrovarcisi o meno. Questa è la più nobile espressione della libertà umana, e pur contrastando con il mio animo bisognoso di dare spiegazioni a qualsiasi cosa, mi rendo conto che l’esperienza diretta vale sempre più di molte parole. Proprio a questo titolo la seguente non è la recensione di un libro, ma il racconto e la reinterpretazione di un’esperienza di lettura. Prima però è importante contestualizzare.

È di Alessandro D’Avenia che parliamo, lo scrittore e professore palermitano che ha collezionato già quattro best seller Mondadori, un film e uno spettacolo teatrale, entrambi tratti dai suoi libri. Proprio ieri il suo libro “L’arte di essere fragili” si è piazzato primo nella classifica dei libri più venduti in Italia (Per intenderci davanti alla Rowling e a Saviano). Dei suoi romanzi non ce n’è uno che non consiglierei di leggere, tuttavia oggi voglio parlare di uno in particolare: “Ciò che inferno non è”. Il libro può esser classificato come un romanzo di formazione, dalle bieche sfumature di romanzo storico, scritto in un linguaggio semplice, scorrevole e comprensibile a tutti, condito da molte espressioni volutamente in dialetto siciliano, che non ne compromettono la comprensione, ma che anzi ne rafforzano contesto e veridicità. Il tutto intermezzato da flussi di coscienza descrittivi ben congeniati, usati per far entrare il personaggio in una Palermo – o una Sicilia – che solo chi ci è nato può conoscere fino al midollo. D’Avenia riesce a trasportarci nei colori e negli odori della sua infanzia-adolescenza-gioventù siciliana alla perfezione, non lo fa soltanto con descrizioni azzeccate, ma con digressioni storiche e poesie narrative che ci immergono nell’inferno-paradiso agrodolce della sua Palermo.

Don Pino Puglisi

La Palermo di D’Avenia è quella degli anni ’90, di cosa nostra e Totò Riina, di Mondello e Brancaccio, di Falcone, Borsellino e Don Pino Puglisi, il parroco ucciso da cosa nostra nel giorno del suo compleanno. Una terra beata e maledetta, di cui il suo romanzo esalta tutta la bellezza, denunciandone la mentalità viziosa e la potenza dirompente, talvolta quasi prepotente. In una Palermo frastornata, vissuta a pieno e consumata dai suoi abitanti, la storia di “Ciò che inferno non è” è una storia di speranza e di servizio al prossimo, un racconto della presa di coscienza del rapporto tra bene, male, delle ingiustizie insite nella libertà, e dell’educazione come strumento di riscatto, ma forse è più la storia di un cambiamento.

Fatte le dovute contestualizzazioni vi lascio alla mia libera reinterpretazione del romanzo di D’Avenia, se non l’avete letto e volete mantenere ogni sorpresa al tempo giusto, potete proseguire sereni, non rivelerò troppo più di quanto non mi è necessario a supportare la storia che voglio raccontare.

Federico ha 17 anni. È nato a Palermo, in un quartiere agiato, famiglia colta, benestante e amorevole, suo fratello sta facendo la specializzazione in medicina. Federico fa il liceo classico, media dell’otto, ama leggere, comporre versi liberi e sogna l’amore come descritto dai grandi poeti. Vive nelle strade di Londra grazie ai romanzi di Dickens, pensa alla sua anima con l’introspezione di Dostoevskij e guarda timido al suo futuro filtrato dalla sabbia che si alza in cielo nelle aride giornate di scirocco. Federico ha un professore di religione speciale, si chiama Pino, don Pino. L’ultimo giorno di scuola don Pino l’ha invitato ad aiutarlo nel centro estivo della sua chiesa a Brancaccio, ha bisogno di una mano per tutta l’estate. Brancaccio è un grande quartiere popolare di Palermo che sorge tra speculazioni edilizie, malaffare, degrado e non curanza da parte delle autorità. Che un ragazzo borghese di Palermo si avventurasse a Brancaccio da solo, specie in quegli anni, era una circostanza assai improbabile. Federico lo sa, ha timore di quello che sta per fare, ma qualcosa in don Pino lo turba, a breve dovrà partire per un viaggio-studio in Inghilterra, e non vuole problemi prima di partire. Federico non sa perché, ma quel giorno decide di seguire don Pino, che nel suo centro ospita principalmente ragazzi, figli di mafiosi, di ladruncoli e popolani che vivono di espedienti. Qualcuno di questi è disonesto, altri no, ma vengono risucchiati tutti dal vortice infernale di Brancaccio: un quartiere che non vuole restare immobile, con pochi vincitori che dominano indisturbati sui molti vinti, tenendoli ostaggi. Il centro è pieno di questi bambini che Federico definisce malacarne, “sporchi”, cattivi, diseducati e semi-analfabeti, Don Pino cerca di dare loro un posto in cui giocare, una speranza per aggrapparsi, sperando un domani di evadere dall’inferno in cui sono destinati a sopravvivere come vittime. Federico ogni tanto passa di là in bici, si ferma a dare un mano al “piccolo parroco”, poi arriva un giorno in cui don Pino si deve assentare per un impegno improvviso, così chiede a Federico di arbitrare una partita di pallone tra ragazzini di strada, il più grande di questi ha 12 anni e si chiama Francesco.

Durante la partita nasce un litigio in campo per una decisione arbitrale discutibile, Federico interviene per sedare gli animi, ma i ragazzini non ci stanno, lo aggrediscono, uno di questi – Francesco – gli tira un pugno nel volto, spaccandogli così il labbro. Federico è amareggiato, distrutto, arrabbiato. Vorrebbe picchiare quel ragazzino, ma in cuor suo si sente umiliato e sconfitto dai loro modi rudi, così abbandona il campo, fugge via, e trova il palo a cui aveva legato la bici vuoto. Doppia amarezza per lui.

Arriva don Pino, lo fa sfogare, lo ascolta, poi chiede a Federico di seguirlo in cambio di un passaggio, le sue labbra sanguinano ancora, ma il dolore più profondo è quello che sente dentro di sé, sono il risentimento verso il bambino che gli ha dato il pugno e la sensazione di impotenza in quella situazione. Don Pino lo porta in cima ad uno dei “casermoni” più alti di Brancaccio e gli indica un punto preciso:

Guarda, li vedi quei palazzi laggiù? Lui viene da lì – gli sussurra Don Pino.

Lui chi? – Chiede Federico guardando nella direzione dei palazzi fatiscenti.

Quei palazzi sono pericolanti, disagiati e riempiti di famiglie numerose con grandi problemi sociali ed economici. Tante donne si prostituiscono, i commercianti faticano a racimolare la cifra necessaria per pagare il pizzo, altri spacciano o smerciano “la roba”, qualcuno ruba o smonta oggetti rubati per ricavarne qualche pezzo da rivendere, altri ancora, quelli che comandano a colpi di pistole, stupri e violenza, sono i capi-mandamento di cosa nostra. Figli delle “famiglie”, sempre più giovani, sempre più spregiudicati, sempre più circondati di scagnozzi comprati con la concessione di qualche lusso in più a discapito di altri. E i bambini giocano per strada, sedotti dalla prospettiva di crescere come gli adolescenti che girano con una pistola nella cintola. Questione di rispetto e reputazione, niente di diverso. Questo è l’inferno, se esiste.

Francesco, il ragazzino che ti ha spaccato il labbro. Casa sua è lì, capisci che non ha scelto di nascere così, se tu fossi nato qui, magari con la sua famiglia, anche tu saresti un malacarne – chiude don Pino.

D’improvviso tutta la frustrazione di Federico si trasforma in un pianto di consapevolezza, la rabbia per il pugno lo abbandona, un malessere più grosso si è impossessato di lui, un dolore dell’anima. “Perché l’anima quando è ferita fa male dappertutto”, ci dice D’Avenia.

Federico si sente impotente di fronte a quanto ha appena scoperto, eppure per quanto frustrato il tocco di don Pino gli dice qualcosa di più, don Pino facendogli arbitrare quella partita gli ha dato uno sguardo nuovo, e come se non bastasse si è seduto con lui a medicargli quella ferita al labbro. Don Pino non l’ha lasciato solo nell’Inferno, lo ha accompagnato, anzi è sceso con lui per uscirne fuori insieme.

Nel pugno di quel ragazzino nato e cresciuto a Brancaccio, Federico scopre di aver sempre vissuto in una serra: amici tranquilli in contesti agiati e sereni, problemi inconsistenti, cultura e modi educati, senz’altro una fortuna, certo, ma come ha fatto a non accorgersi del mondo fuori dalla sua serra? Quella ferita sul labbro adesso brucia di più, perché è il segno tangibile dell’inferno che per qualche ragione a lui non è toccato. Nascere è come una tombola, i numeri vanno estratti per necessità, perché il gioco continui, ma nessuno sa cosa uscirà dal sacco. Tutti sappiamo di nascere, non dove o come nasceremo. La Brancaccio di don Pino, come tante periferie moderne, è inferno e paradiso, un luogo dove una scelta può far la differenza tra vita e morte, dove le persone non hanno filtro e il degrado si accosta alla spontaneità dei suoi abitanti, e poi ci sono la paura, la sofferenza, il dolore, la morte, mondi di cui Federico aveva sempre sentito parlare, accantonandoli nell’angolo delle possibilità che non lo riguardano. E invece lo riguardano eccome, quel pugno gliene ha trasmesso la tangibilità.

Federico si chiede dove sia la giustizia in questo inferno, ma la giustizia, – gli fa notare don Pino – sta nelle nostre scelte, non è innata, l’uomo è libero e come tale è libero di buttarsi via o sopravvivere, così come di vivere a pieno, è libero di fare del male come di fare del bene al prossimo, e poi ci sono tante vie di mezzo che ci si può perdere solo a pensarle. L’inferno sta in mezzo a noi così come il paradiso, non c’è una divisione manichea, si compenetrano per natura, alle volte vince il primo, come a Brancaccio, alle volte il secondo.

Scosso da questa nuova consapevolezza, Federico abbandona il suo progetto di partire per l’Inghilterra, non è giusto partire verso nuove esperienze senza prima aver affrontato tutti gli aspetti della nostra realtà, pensa Federico. Così cerca di spiegarlo anche ai suoi amici del liceo, che non capiscono e lo abbandonano, rivelando la fragilità di tali presunte amicizie. Al contrario Federico a Brancaccio inizia a conoscere persone semplici con cui parlare di sé, persone che anche se senza cultura lo guardano privi di pregiudizi, nella semplicità di chi ha tanto da imparare e molta voglia di ascoltare. Federico a Brancaccio trova l’amore e la consapevolezza del servizio verso il prossimo.

Scopre che servire il prossimo è farsi carico di una parte dell’inferno degli altri, guardando insieme verso ciò che fiorisce, intorno a noi e dentro di noi.  Non a caso uso la parola “fiorire”, parafrasando lo stesso D’Avenia potremo dire che quando Leopardi scrisse della ginestra che nasce sulla pietra lavica, ci piace pensare che il riferimento fosse proprio a questo: dobbiamo ricordarci sempre di fiorire. Come don Pino Puglisi nel quartiere di Brancaccio. Ecco dunque la via scelta da don Pino e da Federico: l’educazione, il partire da quei bambini senza colpa, se non che l’esser nati in un posto difficile, e dar loro una possibilità.

Educare è gettare dei semi di speranza che un giorno forse potranno fiorire, perché fiorire è la più grande speranza che abbiamo per far venire a galla quello che si scorge dentro l’inferno del quotidiano, una speranza che non sta fuori da Brancaccio, ma dentro, ed è un passaggio obbligato per scoprire e amare il prossimo. Si concretizza in un impegno reale, quello che spaventa cosa nostra più di ogni altra cosa, lo stesso che don Lorenzo Milani riassunse in un semplice motto: “I care”, mi interessa. Questo è ciò che inferno non è, il pugno più forte che si possa ricevere, che quando colpisce lascia un segno doloroso, ma che comunque vada si è sempre liberi di ignorare.

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