19 Marzo 2024

Vi sarete sicuramente chiesti in questi primi freddi autunnali come mai Squid Game, una serie coreana, apparentemente estranea ai canoni occidentali e distribuita in Italia senza i favori del doppiaggio, tanto caro al pubblico nostrano, abbia raggiunto un successo così folgorante. È la domanda che mi sono fatto scorrendo la lista dei prodotti Netflix più in voga, postumo dei bombardamenti social in cui fra un meme e una citazione, sembrava proprio una follia non adeguarsi alla moda del momento. Premetto che non amo troppo il linguaggio delle serie televisive, man a mano che leggerete questa rubrica questa mia preferenza diventerà più evidente, ma la curiosità per questa serie era divenuta troppo intensa per non gettarvisi a capofitto. La serie tv di cui stiamo parlando è proprio Squid Game, prodotta e diretta da Hwang Dong-hyuk, giunto alla forma finale del suo lavoro dopo ben dieci anni di scrittura, correzioni e tante porte sbattute in faccia. La trama è ormai famigerata e piuttosto semplice, ruotando tutta intorno al tema dei soldi, continuamente cercati dalla macchina da presa, che fanno da motore al percorso drammatico di vari personaggi, tra cui il protagonista Seong Gi-hun, il numero 456, un uomo meschino dedito al gioco d’azzardo, altro tema non troppo velatamente trattato nel corso delle nove puntate che compongono la prima stagione. Sebbene la meschinità di questo personaggio sia evidente fin dai primi minuti della serie, la narrazione induce lo spettatore all’empatia nei suoi confronti e la sua condizione di costante debito verso una società coreana alienante nel suo sfrenato capitalismo. Una situazione ben diversa da quella dell’amico d’infanzia Cho Sang-woo, travolto dai debiti che però non lo classificano come emarginato dalla società ma assolutamente causa delle proprie disgrazie, tanto da perpetrare gli stessi comportamenti egoistici anche durante i giochi. Non mi soffermerò pedissequamente sulla trama, per quello è sufficiente andare su Wikipedia, perché ritengo che la forza di Squid Game risieda nascosta fra l’apparente semplicità del sistema che permette di compiere un progetto al limite della fantascienza: Raggruppare cinquecento persone su un’isola senza l’uso della forza fisica, ma non di quella sociale, mettendo in palio quarantacinque miliardi di yen, calcolati sul peso della morte di ogni singolo concorrente, come montepremi per la sopravvivenza. La predisposizione semiotica del dettaglio, la cura estetica dell’ambiente in cui i personaggi si muovono rapiscono fin da subito l’attenzione dello spettatore, facilitando il patto narrativo con cui si possono accettare le soluzioni di trama più ardite. Evidenti i richiami ad Escher, celebre grafico olandese, nella realizzazione delle scale con cui i giocatori raggiungono il luogo dove si gioca, manifesti i rimandi all’iconografia della Casa di Carta, dalle tute delle guardie al semplice appartenere ad una produzione Netflix, più nascosti quelli al principio della razionalizzazione di Max Weber. Qualcuno dirà che è un paragone pretestuoso, ma le teorie del sociologo tedesco permeano il sistema cardine di Squid Game, strutturandone la credibilità su cui si sorregge tutto l’impianto narrativo. Secondo la teoria weberiana è razionale ciò che è pensato, realizzato e misurato in relazione ad uno scopo. Non è una razionalità, dunque, prettamente legata al pensiero, come la più comune accezione data a questo termine, bensì è più similare al raziocinio, nella sua etimologia di calcolo e di uso di quest’ultimo per predisporre un sistema il più efficiente ed efficace possibile. Questa teoria, infatti, abbracciava i mutamenti sociali ed economici di fine Ottocento scovando nella società un modello ripetuto e ripetibile, basato su principi semplici ma sempre presenti, come efficienza, prevedibilità, calcolabilità e controllo. Il sistema su cui si basa Squid Game rispecchia questi concetti come fossero dei parametri, essendo un modello in cui ogni aspetto è efficiente, prevedibile, misurabile e sotto il continuo controllo di chi ha accesso alle telecamere, al cui vertice vi è il Frontman.

Niente è lasciato al caso, ogni movimento delle guardie-soldato è predisposto da un piano precedente, ogni gioco è strutturato conoscendo la vita dei partecipanti e persino la morte dei partecipanti è affrontata in maniera meccanicistica, con un ovvio quanto tremendo rimando al metodo nazista dei forni crematori. Del resto, i campi di sterminio sono un perfetto e terribile esempio di razionalizzazione estrema della società, i corpi venivano bruciati seguendo il principio dell’efficienza weberiano, esattamente come avviene nella celebre serie coreana. Nelle parole di Frontman al momento in cui scopre il traffico d’organi organizzato alle sue spalle, si evince una certa retorica sociale, in quanto il danno non è tanto per l’organizzazione parassita messa in piedi dalle guardie stesse, bensì è la prevedibilità che viene a mancare, l’ingiustizia nei confronti degli altri giocatori maschera una lesione al controllo che è basilare e portante per la buona riuscita di tutto il sistema. Dunque, il tema del soldo, del debito posto come colpa che vessa gli uomini, sono certamente tematiche che vengono affrontate nel corso della serie, compresa la raffinata filosofia sui giochi dei bambini che tornano in auge quando si è anziani e vicini a morire, ma è l’impianto centrale della trama sviluppato sulla razionalizzazione della società, sui mezzi asserviti ad uno scopo, che rende Squid Game un prodotto notevole e assolutamente non scontato come spesso viene criticato. Il successo commerciale può essere generoso, al netto dei problemi di regia in qualche scena, come il sovente abuso del ralenty nella drammatizzazione dell’azione, ma resta validissima la cinica visione della realtà in cui sempre più spesso la razionalizzazione di Weber si riflette, tante volte rimanendo nascosta alla vista di una visione puramente d’intrattenimento. Il successo non deve quindi stupire, si ancora semioticamente a tutta una simbologia del già visto, come la Casa di Carta, facendo un uso culturale del tema della battle royale tanto caro al mondo videoludico di oggi, si pensi a Fortnite e Warzone, e già sviluppato dal film giapponese intitolato proprio Battle Royale del regista Kinji Fukasaku. Squid Game però riesce nell’impresa di tracciare un punto netto e preciso tra i prodotti orientali trasportati in occidente, forse facilitato dal successo cinematografico di Parasite un anno fa, a cui adesso ogni nuova produzione mediatica dovrà far riferimento per evitare paragoni che raramente possono lasciare indenni.


 

                                                                                                                                                                Lorenzo Menga

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