I cineamatori realizzano un sogno che ormai diventa sempre più difficile per i cineasti, quello di poter adoperare il cinema come il poeta adopera la carta e la penna, senza problemi industriali che lo soffocano. Con queste parole, nel 1972, uno dei più simbolici autori cinematografici italiani, Federico Fellini, descriveva la realtà cineamatoriale. Effettivamente si trattava di due mondi diversi, ma collegati da un comune sentiero, che non è, come si potrebbe a tutti gli effetti pensare, quello di passaggio da una dimensione autoprodotta a una puramente professionale. Il cardine della differenza si trova nel nocciolo della questione: la maggior parte dei cineamatori non sono, poi, passati al professionismo, per cui hanno sempre cercato di mantenere quello spirito sperimentale che connotava chi lavorava con pellicole in 8 o in 16 millimetri. Purtroppo, limitandoci solamente all’Italia, dato che solo in pochi se ne sono veramente occupati, il patrimonio storico e culturale di questo mondo è immensamente vasto. In qualsiasi angolo della nostra penisola, i cineclub sono nati con tanto fermento. I tempi erano diversi: bastava essere un gruppo di volenterosi appassionati di cinema, riunirsi e dare un ordine logico alle proprie attività per dare vita a un cineclub. È sufficiente ricordare che la località dove è nata la FEDIC, ossia la Federazione Italiana dei Cineclub, non è altro che Montecatini Terme, città di villeggiatura nella quale, dagli anni ’50 in poi, nel pieno del boom economico, era meta di personaggi molto famosi. Basti pensare che presso il Grand Hotel La Pace, sede del Festival e del Convegno Nazionale della FEDIC, in programma annualmente nel mese di Luglio, capitarono in un’edizione, come ospiti, niente meno che i Duchi di Windsor, attratti dalle proiezioni. Da giovane videomaker squattrinato che cerca di realizzare i propri film arrangiandosi, ho trovato dentro di me un istinto automatico che ha attivato il mio interesse verso quell’universo. E ho deciso di occuparmi di tutto questo e per la precisione di uno di loro: Costantino Ceccarelli.
Nato da una famiglia comune, primo di tre fratelli, ha svolto nel corso della sua vita molti mestieri: basti pensare che ha lavorato come operatore cinematografico e televisivo, ma anche come gallerista e, addirittura, venditore di frutta secca. Gli anni ’60, in un periodo della sua vita già matura (classe 1922), sono i più effervescenti. Lavora come operatore e direttore della fotografia negli studios di Pisorno, a Tirrenia, in mano al produttore Carlo Ponti. Parallelamente al mestiere che portava da vivere a sé e alla prima moglie, Adele Cima, svolge la sua attività di regista cinematografico, ottenendo dei successi che, seguendo le ricerche sui quotidiani locali, hanno un sapore internazionale. In modo particolare, è il biennio 1964 – 1965 a portargli quei trionfi che sembrano consacrarlo come un cineasta geniale e rivoluzionario: Strada di sabbia e Bianco e nero sono i due capolavori in Super8 che lo portano in giro per l’Europa, dall’Olanda alla Polonia, sino al coinvolgimento in un progetto in Patagonia, un documentario di cui ancora non si sa niente. È provato, invece, che il nostro uomo abbia lavorato nel 1968 nella troupe di un lungometraggio diretto da uno svedese, tale Alf Kjellin, dal titolo La corsa di Mida, un poliziesco che vide nel cast un attore statunitense oramai sul viale del tramonto, un certo Fred Astaire. Con la fine degli anni ’60 e la chiusura degli studios finisce anche l’epoca d’oro di Ceccarelli, costretto a trovarsi nuovi impieghi. Tornerà dietro una telecamera negli anni ’80, come operatore di una redazione televisiva della lucchesia: Telelefante.
Sui due corti precedentemente citati, ciò che colpisce è la loro modernità, sia come tematiche che come linguaggio. Rapido, ritmico e diretto, soprattutto nei primi piani, il cinema di Ceccarelli è la fusione tra Ingmar Bergman e la Nouvelle Vague francese a metà tra Jean-Luc Godard e Alain Resnais. In più, la profonda attualità degli argomenti trattati, ci fa capire come niente, nell’intimità umana, sia cambiato qualcosa: il desiderio e l’ambizione che portano due o più persone a scontrarsi violentemente, la simbologia della vita e della religione, luce e oscurità che avvolge tutte le fasi della vita di un uomo. Sono così tanti gli spunti che Strada di sabbia e Bianco e nero sono capaci di trasmettere che sorprende il fatto che, fino a questo momento, nessuno si sia mosso per svolgere una ricerca su questo cineamatore, evidentemente troppo sottovalutato. L’augurio è che questo mio progetto possa prendere forma in maniera sempre più concreta, specialmente se l’argomento ha davvero, come io ne sono convinto, un inestimabile valore culturale e cinematografico.
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