#FilmoftheWeek è la rubrica con cui vi consiglio un film a settimana. Oggi tocca al film di produzione russa di Kantemir Balagov, La ragazza d’autunno, vincitore del premio per la miglior regia nella sezione “Un Certain Regard” al festival di Cannes 2019.
Rosso. Ocra. Verde. Questi i colori che ricorrono per tutta la pellicola di Kantemir Balagov, dal titolo La ragazza d’autunno, con la sua storia di amicizia, vuoto e ingombrante senso di colpa, tutta ambientata nella Russia del 1945. Perché inizio parlando dei colori del film, invece che della trama? Perché a mio avviso sono l’elemento che resta maggiormente impresso, quello che ritorna in mente nei giorni seguenti, ripensando al film e alle emozioni che ti ha suscitato – o, come nel mio caso, pensando a quali siano le parole giuste per descriverlo a voi.
Sono questi i tre colori che, più di tutto il resto, rimangono sul fondo degli occhi dello spettatore, portando con loro tutte le tracce della storia a cui si è appena assistito. Rosso come il sangue versato in guerra, come la macchia di dolore di cui sono intrise le vite delle due protagoniste, Ija e Maša – una macchia di cui fanno fatica a liberarsi. Poi c’è l’ocra, il colore che ritroviamo nella carta da parati delle stanze, nelle divise da infermiera delle ragazze, ma soprattutto nei riflessi della luce, calda e soffusa in tutte le scene girate negli interni. E, infine, il verde che, come la speranza, emerge sempre più vivido e ricorrente verso la fine del film. Nella pellicola di Balagov, ce ne accorgiamo subito, nulla è lasciato al caso: ogni dettaglio, dalla scelta dei colori fino alla collocazione dei punti di luce, è stabilito con estrema accuratezza e, così, le scene sembrano costruite come dei magnifici ritratti – di un’epoca lontana, di un dolore vicinissimo.
Ma torniamo all’inizio, torniamo alla trama del film. Siamo a Leningrado, la vecchia San Pietroburgo, nell’autunno del 1945. La guerra è appena terminata, lasciandosi dietro una scia di morti e una povertà che non sembra lasciare scampo neanche ai sopravvissuti. Gli ospedali sono pieni di reduci feriti, ognuno di loro apparentemente glorificato per il servizio reso alla patria – ma, di fatto, abbandonato a se stesso, con le sue ferite, i suoi traumi e senza un futuro che possa accoglierlo con meno dolore.
Ija, ragazza bionda e altissima (così alta che la chiamano “giraffa”) lavora proprio in uno di questi ospedali, come infermiera, cercando con non poche difficoltà di condurre una vita normale. La guerra, infatti, le ha causato un disturbo post-traumatico, che la costringe a paralisi corporee per lunghi e interminabili minuti. Questo suo problema rappresenta un po’ il motore scatenante di tutta la vicenda – ma lo capirete solo guardando il film. Anche Maša, amica inseparabile di Ija, si trovava al fronte e, una volta tornata anche lei a Leningrado, le due donne saranno costrette ad affrontare una sconcertante verità e, soprattutto, a fare i conti con tutte le conseguenze che questa comporta.
Potrei dirvi di più sulla storia? Sì. Ma rovinerebbe tutta la suspense della prima mezz’ora e non voglio certo privarvi di tutta quella tensione – soprattutto per via di una scena in particolare, ripresa e recitata in maniera così impeccabile da lasciare letteralmente col fiato sospeso.
Non so se La ragazza d’autunno sia effettivamente un film che possa piacere a tutti. Mi rendo conto che si tratta di un film drammatico, sullo sfondo di una storia di guerra e dolore, di un film con pochi dialoghi e molto pathos di immagini. Però, se non siete i tipi di spettatori che riducono tutto a “è un film lento, quindi noioso” – come se un aspetto implicasse necessariamente l’altro, ma ok –, allora secondo me non rimarrete delusi dalla pellicola di Balagov. Soprattutto perché ci racconta la storia di queste due donne, tesa costantemente tra amicizia, amore, rifiuto e senso di colpa, andando fino in fondo ad ogni emozione, mostrandola sotto ogni sua sfaccettatura.
Non so bene come spiegarlo ma, lasciando trasparire tutta la fragilità che emerge dalle loro ferite, è come se il film ci lasciasse intuire la forza e il coraggio che queste due donne hanno avuto prima, in guerra. Come se volesse dirci “sì sono distrutte, sono condannate, ma solo perché hanno trovato la forza di sopravvivere”.
Del resto, abbiamo davanti un dramma fortemente introspettivo, in cui la regia stessa indugia continuamente sui primi piani, sugli sguardi, sui movimenti del viso, proprio per farci entrare in completa empatia coi personaggi. Ce li fa letteralmente guardare da vicino, perché solo in questo modo ci sarà permesso di comprenderli.
Questo forte senso di empatia è sicuramente accentuato dalla scelta di collocare la maggior parte delle scene in spazi stretti, angusti e poco illuminati, nonché dal modo stesso in cui i personaggi comunicano tra loro.
La cosa che più mi ha colpito di La ragazza d’autunno è, infatti, questo contrasto costante tra il vuoto che i personaggi si portano dentro e la loro tendenza spropositata a colmarlo con ogni tipo di contatto. Si toccano, si afferrano, si strattonano, si abbracciano.. E la sensazione che si ha immediatamente è che tutto questo contatto affannato, quasi “goffo” – passatemi il termine –, sia l’unico modo che loro hanno per colmare i silenzi, per trovare una rapida alternativa alle parole che non sanno dirsi.
E, nonostante questa recitazione così “corporea” sembri stonare con tutta l’estetica ritrattistica del film, in realtà riesce ancora meglio a farci comprendere il dolore e il rimpianto di queste due donne. Due donne sospese fuori dal tempo, tra il ricordo di quello che sono state e il rimpianto lacerante per tutto quello che non potranno essere.