3 Ottobre 2024

Titoli di debito contratti in euro, prestiti di privati italiani contratti in euro
Chi si lamenterebbe di un uscita dall’euro? Certamente chi ha contratto titoli di debito in euro ( moneta forte) e se li vedrà restituire in lire (moneta debole), quindi  di fatto svalutati. Però chi ha comprato un titolo di stato sapeva di assumersi un rischio, e avrebbe dovuto sapere anche che l’unione monetaria europea prevede che i debiti espressi in euro possano essere rinominati in altra valuta nel momento in cui il soggetto debitore decidesse di uscire dalla moneta unica. Questa sarebbe senz’altro l’occasione d’oro per l’Italia per ridurre drasticamente il proprio colossale debito pubblico ridenominandolo. Il problema qui è che sotto il silenzio generale è passata l’imposizione di clausole sui nostri BTP, che renderebbero parecchio difficile una manovra di ridenominazione del debito. Quindi l’uscita dall’euro dovrebbe passare da una rinegoziazione del fiscal compact, che non so giuridicamente quanto sia fattibile.
Il secondo problema poi è per quei piccoli privati, tipo chi (italiano) paga un contratto d’affitto in Germania, che hanno contratto un debito in euro con qualche altro privato estero e se lo vedrebbero così aumentare di un +40-50% (questa è la svalutazione attesa in caso di uscita dell’Italia dall’euro).

Dipendenza energetica
Un altro problema è che l’Italia importa il 14,1% dell’energia che con una valuta nazionale diventerebbe un costo enorme per la nostra economia. Come se non bastasse del restante 86% che autoproduciamo solo il 37% è prodotto con energie rinnovabili che non dipendono dall’import, il resto di questa energia è prodotto da centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili, sopra tutti gas naturale che compriamo da Russia, Libia e Algeria.
Anche i trasporti usano combustibili fossili, quindi anche buona fetta degli spostamenti e quindi delle merci (che in Italia si muovono prevalentemente su gomma) subirebbero una pesante inflazione.
Gli euroscettici propongono sempre la stessa soluzione: per quanto riguarda il problema della bolletta rincarata il surplus commerciale italiano pagherà questa differenza contendo l’inflazione. Per quanto riguarda il contenimento del caro-benzina invece propongono di togliere tutte quelle accise tuttora vigenti fino a far ritornare i prezzi entro limiti ragionevoli. Anche il contenimento del carobenzina riducendo le accise, pur più realistico, sembra una decisione poco saggia da prendere in un momento in cui la spesa pubblica sarebbe super appesantita dalla manovra proteggi-svalutazione citata al primo paragrafo, dato che le accise sui carburanti rimangono, insieme ai tabacchi, l’unico strumento di prelievo fiscale sicuro.
Più avveduto e lungimirante sarebbe sfruttare l’uscita dall’euro e quindi la minaccia inflazionistica che ne conseguirebbe per un ripensamento del piano energetico. Prima di staccare la spina alla moneta unica sarebbe intelligente attuare una rapida e massiccia campagna di incentivi fiscali per mezzi elettrici o ibridi e disincentivi per mezzi che utilizzano combustibili fossili. Diminuirebbe il fabbisogno di carburante ma certo aumenterebbe quello elettrico, che ad una latitudine come la nostra potrebbe essere ampiamente soddisfatto con massicci investimenti sul fotovoltaico. Certo, vanno ripensate le infrastrutture, gli investimenti e le politiche di spesa e di prelievo statali. Per fare una cosa del genere sarà necessario un governo risoluto che non guardi in faccia a nessuno ma soprattutto beneficiario di un forte sostegno parlamentare che lo appoggi senza remore in ogni decisione, e ad oggi questa prospettiva appare quanto mai improbabile.


Soluzioni alternative:
L’Euro a due velocità
L’attuale cancelliera della Repubblica Federale di Germania Angela Merkel ha recentemente proposto un Euro a più velocità, anche se non ha specificato esattamente e con chiarezza cosa intendesse. Lascia ben sperare gli euro scettici però che voglia essere una divisione in due monete distinte, una per le zone più povere (Italia, Spagna,  Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro e Malta) e una per tutte le altre.
Questo porterebbe ad una svalutazione controllata che rilancerebbe il sud dell’eurozona rendendolo più competitivo – dice Hans Olaf Henkel, ex presidente della Confindustria tedesca, intervistato dal Corriere della Sera.

Gli Stati Uniti d’Europa
Questo è il progetto più interessante verso cui l’Europa possa muoversi: unificazione fiscale, di politiche economiche, tassi d’interesse, è tutto qui. Come avevamo già detto l’Europa ha una banca centrale, un parlamento ma non un governo (legittimamente eletto o detentore della fiducia parlamentare) che detenga unilateralmente la prerogativa della leva monetaria tramite un suo ministro del Tesoro. Gli Stati Uniti d’Europa si avvierebbero così ad essere una sorta di Repubblica federale dove i singoli Stati seppur ubbidienti ad un governo centrale avrebbero ampio respiro politico ed indipendenza decisionale. Noi saremmo uno degli stati più poveri, costantemente in rosso e che necessiti di continui spostamenti di liquidità. Ma all’interno di una Repubblica questo avviene naturalmente: le Regioni più ricche e virtuose si fanno carico (almeno in teoria) di coprire il costante deficit di quelle più povere.
Bellissimo! Ma purtroppo non è verosimile che nazioni come Germania o Paesi Bassi siano disposte a fare un passo del genere.

Le origini della moneta unica: i primi anni novanta, Maastricht e il divorzio tra Bankitalia e Tesoro

L’Euro viene ormai considerato da molti un esperimento non riuscito: ha tenuto il cambio stabile, è emesso da una banca centrale che ha un tasso di sconto bassissimo, non c’è pericolo di eccessive svalutazioni ne di inflazione (anzi se mai il pericolo e di natura deflattiva), eppure per i più la preoccupazione di fondo rimane: ha reso più competitive e potenti economie che già andavano bene e ha impoverito gli stati più in difficoltà. Ma allora perché l’Italia è voluta entrare nell’euro? Ne aveva bisogno? La risposta è sì! Nel 1992, anno della firma dei Trattati di Maastricht, l’Italia non era esattamente messa benissimo: l’inflazione era al 19-20% e i tassi d’interesse erano al 18-20%. Il deficit era circa al 10,6% e il giovane Stato Repubblicano faceva fatica a farsi prestare soldi per finanziare l’immane debito. Nessuno voleva più in portafoglio i nostri titoli di stato che sul mercato andavano costantemente peggiorando la loro reputazione. Inoltre un crisi valutaria causata dalle attività speculative del miliardario ungherese George Soros, fece uscire lira e sterlina dallo Sme (Sistema monetario europeo, che legava le valute partecipanti ad una griglia di cambio predeterminata) e le trascinò in una pesante e inaspettata svalutazione che portò i titoli di debito ad essere ancora meno appetibili.
Entrare nell’unione economica e monetaria, significava per l’Italia un “prestito di credibilità”, di cui in quel momento non godeva. Solo così facendo l’Italia poté riacquistare la fiducia sui mercati e tornare a vendere titoli di stato a prezzi ragionevoli.

Inoltre l’euro sembrava effettivamente qualcosa che poteva funzionare e portare ricchezza e crescita tanto da far dire a Prodi, allora presidente dell’Iri, che con l’euro si sarebbe lavorato un giorno in meno e guadagnato come se si fosse lavorato un giorno in più. Al netto dei fatti questa frase risulta assolutamente ridicola, ma allora nell’euforia del momento solo pochi avveduti riuscirono a capire i reali rischi che un unione monetaria avrebbe portato con sé.

Ma perché nel 1992 l’Italia versava in quelle condizioni? Le ragioni sono plurime, ma molti sostengono che quella principale sia imputabile ad un fatto avvenuto grosso modo dieci anni prima: il famigerato “divorzio tra Bankitalia e Ministero del Tesoro” del 1981.


Il 12 Febbraio 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta di comune accordo con l’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi sancirono la separazione delle due istituzioni.
La Banca d’Italia dal 1936 in poi era divenuta un istituto di credito di diritto pubblico in mano al ministero del Tesoro. Questo consentì dal dopoguerra in poi allo stato di monetizzare il debito facendo comprare alla Banca centrale in questione tutti quei titoli di debito sul mercato non collocati presso investitori privati, alzando così il loro valore nominale e tenendo i tassi d’interesse controllati. Questo “quantitative easing” operato bilateralmente da Tesoro e Bankitalia aumentava però costantemente la base monetaria e fu perciò tacciato di essere corresponsabile nei processi di impennate inflazionistiche verificatesi per tutti gli anni ’70 a seguito dello shock petrolifero. Come si è poi visto l’inflazione è rimasta costante se non addirittura peggiorata, questo perché è ben noto che l’inflazione non deriva da un aumento dell’offerta di credito se utilizzata per il finanziamento di investimenti in settori produttivi ma, in questo caso, da fattori esogeni come l’aumento del prezzo del petrolio e il cambio di politica dei paesi Opec.
Questo divorzio fece sì che lo stato fosse costretto a collocare tutti i titoli di debito sul mercato privato senza riuscire più a contenere i tassi d’interesse. Difatti durante tutti gli anni ’80 si assistette ad un esplosione colossale della spesa pubblica per interessi passivi. La crescita dello stock di debito registrata a partire da quel 1981 secondo i più, può essere letta solo in un senso: Il rapporto debito/pil passò dal 56,86% del 1980 al 94,65% del 1990, fino al 105,2% del 1992. Da allora è rimasto costante sino al 2008 dove a causa di shock esterni e privato della leva monetaria necessaria ad affrontarli è peggiorato ulteriormente fino a raggiungere il picco dopo le politiche di austerity del 2014 – 134,2%.

Conclusioni
Nonostante il periodo dei più bassi tassi d’interesse della storia, il debito rimane un gigante invincibile e la disoccupazione alle stelle. Un articolo di Bagnai del 12 maggio di quest’anno tocca il nervo scoperto della questione euro, citando e attualizzando il fu Rudiger Dornbusch che nel 1996 metteva in guardia contro il progetto dell’unione monetaria: “[…]trasferirà al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività, rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere.”
Quando misero in piedi il progetto euro i padri fondatori sapevano certamente che il tutto aveva delle intrinseche debolezze ma nessuno di loro si aspettava certo che il sistema andasse completamente in tilt alla prima grande crisi finanziaria, ma purtroppo così è successo.
In oltre ora che il dibattito va sempre più esacerbandosi molti recriminano all’euro di essere una profonda spina nel fianco dello stesso progetto Europa. Questo perché “un mercato comune ha senso solo in quanto sostenga la crescita se dal resto del mondo arrivano shock [come la crisi americana del 2008]. Purtroppo, siccome in una unione monetaria l’aggiustamento macroeconomico necessariamente passa per la svalutazione interna (taglio dei salari), la moneta unica vanifica i benefici del mercato unico: perché tagliando i salari si reprime la domanda interna proprio quando se ne avrebbe bisogno per sostituire quella estera provvisoriamente insufficiente” – Alberto Alesina, 1997-

Certo è che il discorso è molto complesso, la transizione difficile, sicuramente non indolore, e i risultati imprevedibili. Il dibattito è ancora aperto ed ancora presto per sottovalutare una delle due parti, ma sarebbe opportuno anche per l’Europa iniziare già a pensare e discutere un piano d’evacuazione dall’euro, uno sforzo coordinato, coadiuvato dalle migliori teste pensanti dell’economia, che nel caso diventi necessario addolcisca lo smantellamento di questa mastodontica architettura valutaria e non crei grosse destabilizzazioni finanziarie.

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Gigi Annarelli

Livornese classe 1997, studio Lettere moderne a Pisa. Appassionato di letteratura, musica e politica, colgo ogni occasione che possa essermi utile come esperienza conoscitiva e di arricchimento. Nel tempo libero scrivo poesie, faccio sport e teatro.

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