27 Luglio 2024

A breve ricorreranno due celebrazioni molto sentite nel Bel Paese: parliamo delle celebrazioni per la Festa del Lavoro e per la Festa della Repubblica Italiana.

Importante, e doveroso, è sottolineare come queste due date possano essere collegate in maniera indissolubile ad una necessità, ad un dovere di cittadino in quanto tale collocato all’interno di una società moderna: la necessità di votare.
Il nesso tra questi due aspetti non è (quasi) mai messo in luce, ma questo non significa che perda di importanza.
La storica data del 2 Giugno 1946 è ricordata, oltre per il fatto di essere il giorno glorioso in cui gli italiani hanno scelto la Repubblica in luogo della precedente monarchia, per essere stato il giorno in cui per la prima volta nella storia d’Italia si è pienamente realizzato il suffragio universale, garantendo il diritto di voto a tutti gli uomini e a tutte le donne, una novità epocale per l’epoca.


Per poter esprimere il loro parere, per poter partecipare della vita della Nazione di modo tale da sentirsi parte della Comunità in un contesto di libertà, sono morti decine di migliaia di uomini e donne di ogni età e di ogni credo, stroncati da un regime che aveva soppresso qualsivoglia libertà di espressione, non da ultima quella di concorrere alla determinazione delle scelte politiche del Paese. Nel 1946, per la prima volta, indipendentemente dalla storia personale di ognuno di noi, dalla posizione sociale ricoperta, dal censo o dalle scelte compiute nella vita, ciascuno ha avuto l’opportunità di determinare il proprio destino.

Siamo un Paese che molto spesso, troppo spesso, si proclama antifascista. Tuttavia, il 30% degli elettori non si presenta alle urne, e presumibilmente non si presenterà al voto nelle prossime elezioni europee. Questa è una contraddizione di fondo, e segnala come spesso tra parole e azioni la corrispondenza sia molto più difficile di quel che si creda.

 

Una delle più grandi lezioni di educazione civica, a mio avviso, è comprendere la profonda, radicale e sostanziale differenza che esiste tra non andare a votare e andare a votare, magari inserendo una fetta di salame nella scheda elettorale e scrivendo con la matita a chiare lettere “Andate tutti affanculo!”, come mi è capitato di trovare. In entrambi i casi lo sdegno nei confronti della classe politica è totale, ma concettualmente i due comportamenti sono agli antipodi.

Nel secondo caso, la scheda elettorale viene dichiarata nulla: siamo di fronte ad un individuo che ha mostrato, come espressione della propria libertà di pensiero, di non riconoscersi in alcuno dei soggetti o progetti politici presenti nel panorama di riferimento. In modo volgare, verace, ma comunque lecito.
Nel primo caso siamo di fronte ad un tradimento del lascito storico che nonni e bisnonni ci hanno lasciato, ad un tradimento della storia del nostro Paese. Scegliamo non l’anonimato, scegliamo l’inesistenza: dimostriamo di non essere interessati ad avere consistenza nella vita di comunità alla quale ci rapportiamo, mostriamo un completo disinteresse verso chi ci circonda e verso cosa ci circonda. Immaginate se il censimento non venisse fatto sulla base dei registri di nascita, ma sulla base di quanti hanno espresso il voto: sarebbe bello essere inesistenti?

Questa è l’importanza di chiamarsi elettore. Alle prossime elezioni votate, votate il progetto o il partito che più vi aggrada, ma accorrete alle urne. Un grido disperato di libertà si rinnova elezione dopo elezione, e non possiamo permetterci di tradirlo.

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