27 Luglio 2024

E’ con il racconto Nostos di Beatrice Sensini che la nostra rubrica Writers Wednesday torna dalle vacanze!

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Nostos

di Beatrice Sensini

La notte sbiadiva all’orizzonte e il cielo si tingeva di un rosa tiepido, nel momento in cui Davide si rese conto che il suo sogno non c’era più. Sparito, perduto, non pervenuto. Lo cercò meglio nella sua testa, ma niente; forse perché i sogni si cercano nel cuore, e il suo sembrava addormentato in quel mattino di inizio dicembre, come se tutta quella nebbia che sembrava voler inglobare la città e in particolare quella terrazza l’avesse accerchiato sempre più stretto, fino a non fargli provare più niente. Alzò il bavero della giacca e rabbrividì; mentre frugava nelle tasche alla ricerca del mozzicone di un sigaro che ricordava di aver lasciato proprio lì, anche se i suoi polpastrelli dicevano il contrario e continuavano a tastare solo stoffa, trovò il margine spigoloso di qualcosa di rigido; aggrottò la fronte e estrasse dalla giacca un piccolo biglietto di auguri, con un elefantino stilizzato sul davanti; l’interno del biglietto recitava “Tanti auguri per un compleanno importante a un papà che lo è ancora di più! Marta e G.”.
Riponendo di nuovo il biglietto dove l’aveva trovato, Davide si lasciò andare a un mezzo sorriso. Non sapeva da dove venisse quell’abitudine di Greta di firmarsi soltanto con l’iniziale puntata; quando le aveva chiesto spiegazioni, la sera precedente a cena, lei si era limitata a rispondere con un’alzata di spalle:

– Beh, quante figlie hai il cui nome inizi per g?

Avevano mangiato nel ristorante che aveva scelto Marta, come sempre; il menu lo aveva supervisionato Greta, come sempre; Davide non aveva parlato molto, limitandosi più che altro ad osservare i volti sempre più adulti, dai contorni sempre più netti ed affilati, di quelle due ragazze alte e dall’aria sicura che ormai da tempo sembravano non appartenergli più neanche un po’. Forse era la lontananza, forse era vero, come diceva Alessia, che la sua ex moglie cercava di mettergliele contro, anche se Davide non credeva che potesse essere possibile: tra la rubrica al giornale e i suoi quaranta minuti di jogging mattutino, tra l’istruttore di yoga che, almeno a detta di Greta, le faceva la corte e i lavori di restauro del bagno, passando per qualche seduta di manicure, Gabriella sembrava impegnata in ben altro che indirizzare le proprie figlie all’odio verso qualcuno. Perfino verso l’uomo che l’aveva tradita, e col quale sembrava aver ormai consolidato un rapporto freddo ma cortese, a patto che non infrangesse troppo frequentemente la barriera mentale e soprattutto quella fisica, di quasi 600 chilometri, rigidamente poste fra loro da ormai tre anni.
In quel mattino di inizio dicembre Davide sospirò, passandosi una mano tra i capelli e giocherellando con l’accendino; non aveva trovato alcun sigaro, in fin dei conti. Era di nuovo a Milano, c’era di nuovo la nebbia e la testa gli faceva di nuovo male; solo la sera prima aveva passeggiato con le figlie sulla riva del mare, dopo aver sorseggiato un vino dolce ed aver aperto il loro regalo, un maglione decisamente stretto abbinato ad una sciarpa decisamente color salmone; aveva detto un sacco di “wow” e di “che bello!” e aveva respirato il profumo dello shampoo di Greta in un abbraccio che era durato forse tre perfetti secondi, prima che lei corresse via. A tratti riusciva ancora a sentirlo.

Ora tutto sembrava tornato a quella che era diventata la sua grigia, quotidiana normalità. Non fosse stato che per una cosa: per quanto lo cercasse, per quanto aggrottasse la fronte e frugasse nei meandri più reconditi di quelle quattro o cinque definizioni che aveva sempre creduto bastassero a circoscrivere il suo essere, il suo sogno non c’era più.

La scomparsa del sogno gli sembrò subito una cosa molto seria. Negli anni, da quando aveva cominciato a coltivarlo, quando era poco più di un ragazzino lungo come un giunco, con i calzoni a bandiera e gli occhi inquieti, coi capelli spettinati e le ginocchia nodose, il suo sogno l’aveva cullato e tradito, respinto e abbracciato più volte; a volte l’aveva portato in alto, in un volo illusorio e di breve durata, molte altre l’aveva deluso; c’erano stati giorni in cui era rimasto sopito, come in letargo, o gli aveva voltato le spalle con aria offesa; a ben pensarci, forse erano più di quelli in cui gli aveva sorriso. Ma sparire del tutto, quello non era successo mai. E per la prima volta Davide, cinquant’anni e un giorno, ebbe paura che non sarebbe tornato mai più.

Si trattenne sulla terrazza giusto il tempo necessario per vedere il sole sorgere, poi voltò le spalle a quello spettacolo infuocato e tornò in cucina, dove accese con una ditata decisamente più irruenta del necessario la macchinetta del caffè. L’unica esperienza simile al sonno che avesse avuto nelle ultime 48 ore era stata la mezz’ora in cui aveva sonnecchiato in aereo; dopo la passeggiata sul lungomare di Ostia, Marta e Greta l’avevano accompagnato all’aeroporto, e il fatto che la patente di Marta fosse stata stampata solo due mesi prima non era stato un problema, finché una curva particolarmente ampia non aveva convinto Davide che, fosse stato cattolico, sarebbe stato ormai prossimo il momento di dire le preghiere e rimettersi a Dio.


Fece scivolare uno sguardo distratto sull’angusto divano di fintapelle che era recentemente andato a riempire l’ultimo angolo libero del bilocale e si ricordò che avrebbe dovuto sgombrare un po’, appena possibile, i ripiani della cucina, dove una massa pericolante di scatolame minacciava già da giorni di sovvertire l’ordine costituito delle scorte alimentari, inglobando con una cascata impellente e rovinosa qualsiasi nuova provvista fosse andata ad aggiungersi alla loro schiera; con un sospiro, si consolò per l’ennesima volta al pensiero che, se non altro, aveva una buona terrazza, e nella rastrelliera per i vini c’era posto per abbastanza bottiglie.
Si sedette sul divano, massaggiandosi le tempie doloranti con una mano e stringendo la tazza di caffè bollente nell’altra, e considerò l’ipotesi di concedersi il lusso di un pisolino. Eppure non si sentiva stanco; aveva addosso quella strana, inquietante sensazione di perdita che l’aveva afferrato al momento di sbarcare dall’aereo e non l’aveva più abbandonato. Pensando che le cose sarebbero andate meglio dopo una doccia, abbandonò la tazza ancora mezza piena sul tavolo di cucina e cominciò a sbottonarsi la camicia; la segreteria telefonica lampeggiava già da quando aveva messo piede in casa, annunciandogli la presenza di due messaggi; con una smorfia, Davide premette play, entrò in bagno e girò la manopola dell’acqua calda della doccia, spedendo con un calcio le mutande in cima ad una pila di loro prossime parenti, che facevano compagnia a qualche cugino sfigato di calzino spaiato accanto alla lavatrice, irrimediabilmente rotta.

La voce che uscì dalla segreteria era, abbastanza prevedibilmente, quella che in tutto il pianeta avrebbe avuto meno intenzione di ascoltare, tanto che fu tentato di fare una rapida sortita fuori dal bagno per saltare direttamente al messaggio successivo; in più, avrebbe corso il brivido di aggirarsi furtivamente, seppur per pochi istanti, nudo di fronte all’ampia finestra della cucina, oltre la quale un’anziana signora malcelata dietro tende di pizzo non riposava mai. Ma nel bagno il vapore stava facendo il suo dovere, riscaldando in fretta quell’abitacolo tanto ristretto, e Davide pensò bene di risparmiare quel coccolone alla vecchia curiosa: in fin dei conti, sotto una doccia calda diventava più sopportabile perfino la voce di Delia, la sua recente (e, sospettava, anche di breve durata) datrice di lavoro che, tra un rumorosissimo sorso e l’altro di quello che in tutta probabilità doveva essere stato il suo primo caffè mattutino, ore 3:00 circa, biascicava nell’apparecchio:

– Mi domando sempre più spesso se il tuo cellulare sia stato acquistato per sport. Richiamami appena senti, stavolta è roba grossa!
Mentre si faceva lo shampoo, scattò il secondo messaggio, quello meno recente; Davide sentì distintamente il bip di avvio, ma poi solo silenzio; chiuse rapidamente l’acqua e, senza smettere di insaponarsi, si mise in ascolto.

– Ciao Davide!
La voce squillante di sua madre che, come al solito, cercava di colmare la distanza da Torino a Milano urlando a perdifiato nell’apparecchio, esplose in quel silenzio sospeso e innaturale e lo fece sobbalzare talmente forte che riuscì a salvarsi per il rotto della cuffia da un comico scivolone all’interno della cabina doccia; imprecando, tornò ad aprire l’acqua, sospettando che sarebbe stato in grado di udire il seguito del messaggio anche con una selva di trapani impazziti a dieci centimetri da ogni orecchio.

– Buon compleanno! – proseguiva sua madre – come stanno le mie nipoti? Volevo dirti che temo che dovremo rimandare: questo weekend tua sorella mi lascia i bambini per andare di nuovo a sciare con quel tipo francese.
Davide si produsse in un contenuto gesto di esultanza, più per il weekend libero da impegni che non per empatia nei confronti del “tipo francese”, Mathieu, che non aveva potuto soffrire dal momento in cui si erano stretti la mano e che però, a differenza di sua madre, si sforzava almeno di interpellare usando il nome di battesimo da quando era diventato padre del suo terzo nipote.

– Non ti dispiace, vero? – continuava il messaggio – comunque, ci tenevo a dirti che visto che non potrò portarti il tuo regalo di persona, ieri sono andata a spedirlo. Spero che ti piaccia. Richiamami presto, tesoro mio, fai il bravo!

Avvolgendosi nell’accappatoio, Davide si chiese cosa mai potesse essere quel fantomatico regalo che sua madre non aveva voluto aspettare di consegnargli di persona; dopotutto, sarebbe andato a Torino prima della fine del mese per trascorrere il Natale con lei, le sue due sorelle con le rispettive famiglie ed una dolcissima e arteriosclerotica zia; se Gabriella non avesse fatto storie sarebbero venute anche Greta e Marta, almeno per il pranzo di Santo Stefano.

In ogni caso, era bendisposto ad aspettare il corriere, dal momento che non si sarebbe comunque mosso di casa per quel giorno; strisciando con i piedi bagnati su un asciugamano fino al soggiorno, alzò pigramente la cornetta del telefono e compose il numero di Delia, pronto a fingere con ingente perizia i sintomi di un’influenza fulminante.

Aveva lavorato, più spesso lavoricchiato per tutta la vita girando attorno al suo sogno, sperando di realizzarlo, prima o poi, anche se non aveva mai avuto il coraggio di provarci fino in fondo; lui preferiva dire di non aver avuto l’occasione, ma la realtà la conosceva bene: c’è poco da sperare finché una pila di fogli continua a vedere solo l’interno di un cassetto.
Quando se n’era andato in fretta e furia da Roma, in seguito alla burrascosa quanto improvvisa separazione dalla moglie, aveva lasciato praticamente tutto nella vecchia casa, dileguandosi dopo aver pregato una Gabriella emotivamente instabile di impacchettare e spedirgli almeno lo stretto necessario, non appena avesse avuto un indirizzo da comunicarle. Ma quella pila di fogli era stata la prima cosa ad aver trovato un posto nella sua borsa, il primo pensiero dopo l’abbraccio che aveva dato alle figlie e dopo essersi soffermato ad asciugare tutte le lacrime di Marta; Greta no, Greta non piangeva mai. L’aveva salutato col mento alto e l’espressione dura che assumeva durante le gare di nuoto, al momento prima del tuffo.

Le sue figlie erano rimaste a Roma, prima di distogliere lo sguardo dalla porta di ingresso le aveva viste distintamente darsi la mano; ma quei fogli erano partiti con lui, che in quel momento non aveva uno stipendio e alla fin fine aveva preso il treno, più economico, decisamente più adatto a pensare; vicino a quel finestrino aveva fatto passare le dita tra i vari fogli, scorrendo con gli occhi le storie, i sogni raccolti là in mezzo, imprigionati ad aspettare un momento propizio che in più di trent’anni non era mai arrivato, o che lui non aveva saputo cogliere. Certi giorni, quella pesante pila di carta gli sembrava soltanto l’ingombrante documentazione di un’aspirazione, forse l’unica degna di nota che avesse avuto, mai realizzata.
Nel corso dei tre anni di permanenza a Milano altri fogli erano andati ad aggiungersi in fondo alla pila, tutti scritti a mano con la sua stilografica, per quanto non sopportasse che l’inchiostro gli macchiasse puntualmente le mani e imbrattasse anche i fogli; ma quella penna era stata di suo padre. Era stato suo padre a trasmettergli la passione per la scrittura, cominciando col leggergli storie a fianco del letto, per farlo dormire, finendo per farsene raccontare di nuove da un Davide ancora bambino, di giorno, come in una sorta di goffo risarcimento per ogni buonanotte; era a suo padre che a quattordici anni, in un giorno di sole che ricordava bene quanto il precedente, aveva detto con un sorriso sicuro stampato in volto “farò lo scrittore”.

Un sogno è qualcosa che ti definisce, che ti tiene il mento alzato, che non ti lascia mai solo. E Davide forse, dall’età di quattordici anni, non si era mai sentito solo come in quel momento.

Il campanello lo risvegliò da un pisolino breve e poco soddisfacente; convinto di avere tutta l’aria di una novella creatura del dottor Frankenstein, Davide si alzò per andare ad aprire, aspettandosi di trovarsi di fronte il sorriso e il berretto a visiera di un anonimo corriere. Invece sul pianerottolo, strusciando le suole degli stivali enormi sullo zerbino consunto, c’era Alessia, con le gambe lunghissime rivestite di jeans e l’aspetto imbronciato di chi è sempre di corsa e te la fa pagare cara se lo rallenti. Alessia era la ragione del suo trasferimento a Milano: quando aveva avuto un disperato bisogno di rimanere ancorato a qualcosa, di avere qualcosa di solido e tangibile a portata di mano, qualcosa che non scomparisse, quel qualcosa era stato lei.

Nella versione della storia in voga all’interno della famiglia di Davide, la stessa Alessia era anche la ragione del suo divorzio; in realtà, lei era arrivata quando le cose si erano già sfasciate da tempo, e aveva dato una bottarella al tutto provocando un crollo di gran lunga più rovinoso di quanto avessero mai potuto prevedere. Si erano conosciuti a Villa Borghese, durante un servizio sul verde pubblico cittadino per il quale Davide era stato mandato a scattare delle foto; era stato durante l’ultima delle poche, probabilmente non più di venti, settimane in cui aveva lavorato per un mensile della capitale.

Alessia aveva posato per quelle foto con una serie di cagnolini al guinzaglio e coniglietti tra le braccia e poi, durante la pausa caffè, era andata a sedersi vicino a lui scrutandolo da sotto le palpebre pesantemente truccate:
– Quindi sei il fotografo di quel magazine – aveva detto, accendendosi una sigaretta.
– Veramente no. Sarei un giornalista – aveva risposto Davide, non troppo affabile, scorrendo sullo schermo della reflex quelle immagini che parevano smentirlo all’istante.
– Ah… – aveva commentato lei, continuando a fissarlo.
Solo “ah”, ma in quell’ “ah” si sentiva bene la domanda implicita “e allora cosa diavolo ci fai qui a scattarmi foto?”, così lui si era sentito autorizzato a proseguire:
– Mi interesso di fotografia. Il mio capo ha mandato me perché il fotografo è fuori città e serviva una copertina in tempi brevi.
– In poche parole, sei la puttana della redazione – aveva annuito lei, come se tutto le tornasse ora molto più chiaro.
Davide era rimasto talmente folgorato di fronte alla sua franchezza che la notte stessa erano finiti a letto insieme. Era stata la prima volta, in diciannove anni di matrimonio, e neanche quarantotto ore dopo si era scoperto a piangere col viso tra le mani, seduto nel mezzo di quel divano immenso che l’aveva sempre fatto sentire così piccolo, di fronte ad una Gabriella in evidente collasso nervoso.

Il suo pacco di fogli l’aveva imballato e portato via di lì nel giro di tre giorni, insieme a quel poco della sua vita che gli era rimasto in mano. E senza neanche sapere bene perché, di fronte allo spettacolo ampio e disorientante dei binari della stazione Termini, lo sguardo gli era caduto su quel biglietto da visita un po’ stropicciato; era finito a Milano e, sempre senza sapere perché, aveva guardato di nuovo quel biglietto e si era scoperto a comporre quel numero di cellulare.
Lei aveva risposto.

– Beh, bentornato – Alessia si alzò sulle punte per dargli un bacio – com’è andata?
– Molto bene – rispose lui, scostandosi dalla soglia per farla entrare – un po’ stancante, al solito.
Alessia puntò dritta alla caffeina; prima ancora che si fosse sfilata quegli stivali da dominatrice, stringeva tra le mani una tazzina di caffè e la contemplava con due occhi da dipendenza in stadio avanzato.
– La tua ex moglie? – chiese.
Davide si aspettava quella domanda; rientrava sempre tra le prime cinque, ogni volta che tornava da una visita alle figlie, e sapeva ormai come rispondere:
– Non so, ci siamo a malapena incrociati. Ma sembra che stia bene.
– Niente frecciatine sul tuo stile di vita e sulla poco di buono che ti porti a letto?
– Nessuna – ce n’erano state un paio, in realtà.
– Nessun melodramma sul fatto che le tue figlie crescano senza un padre?
– Niente – forse Gabriella aveva accennato a un calo nei voti scolastici di Greta, dovuto senz’ombra di dubbio all’assenza di una figura paterna al suo fianco.
– Stupefacente – Alessia finì di bere il suo caffè e lasciò la tazzina a terra, acciambellandosi sul divano con le gambe ripiegate sotto quel sedere perfetto, senza più chiedere niente.
Davide tirò un sospiro di sollievo interiore e andò a sedersi vicino a lei, accarezzandole un braccio; aveva smesso di risponderle in modo brusco, ingiungendole di non parlare delle sue figlie, quando aveva scoperto che lei un padre non ce l’aveva mai avuto.
Era talmente dura che obiettarle qualcosa diventava un’impresa, contraddirla una crociata; a volte sembrava perfino difficile credere che avesse bisogno d’amore, che avesse posto anche per quello e che ci fosse un cuore, da qualche parte imprecisata, sopra quelle gambe chilometriche.
– Ha telefonato mia mamma – disse, prendendole una mano e attirandola a sé – mi ha di nuovo chiesto se sarai dei nostri per Natale – mentì.
Lei gli puntò contro quello sguardo di ghiaccio, sicuramente valutando se credergli o meno; poi scrollò le spalle come se non le interessasse, la sua decisione era stata presa settimane prima:
– Non verrò a farmi squadrare per l’ennesima volta come l’adolescente rovina-famiglie, seduttrice di affascinanti uomini maturi.
– Mmmh – Davide ci pensò su, baciandole il dorso e poi anche il palmo della mano – preferirei soffermarmi sull’ “affascinante” che mi è parso di aver sentito, ma un problema più urgente occorre alla mia mente perfezionista: hanno per caso spostato il termine dell’adolescenza dai diciannove ai quarantasette anni?
– Quarantasette li avrà tua sorella, bello, prima che io arrivi ai trentacinque questa cosa che stiamo facendo sarà bell’e finita – ribatté lei, scalciando. Però rideva.
– Ah, davvero? – anche lui rise, intrappolandola tra le braccia per baciarla e stupendosi per l’ennesima volta di quanto fosse esile e fragile – allora sbrighiamoci, non abbiamo più tanto tempo…
– Stronzo.
E mentre lei si sfilava il maglione, Davide corse a tirare le tende, senza tralasciare un gesto di saluto all’anziana signora seduta in finestra.

Quando si svegliò era raggomitolato sul divano per entrarci tutto e approssimativamente coperto da un plaid. Oltre le tende faceva già buio; doveva essere più o meno ora di cena e lui aveva di nuovo mal di testa. Alessia si era dileguata in silenzio, come faceva sempre; unico segno del suo passaggio, oltre ai vestiti di Davide sparsi sul pavimento e la tazzina poco lontana, un biglietto malamente ritagliato a forma di cuore e lasciato su un cuscino accanto alla sua testa. “Ben svegliato!”, diceva.

Rivestendosi alla bell’e meglio, Davide caracollò fino al freezer e mise a scongelare nel microonde una confezione di lasagne. Mentre si sedeva a mangiare sbirciò con la coda dell’occhio verso la scrivania, all’altro capo della stanza; la maniglia del primo cassetto gli sembrò a un tratto lontanissima, inavvicinabile. Gli passarono davanti agli occhi, uno per uno, tutti i fogli racchiusi lì dentro, coperti da una scrittura fitta, secca, essenziale: quelli più vecchi, già ingialliti, in alcuni casi macchiati, vergati con tratti ancora infantili e pieni di correzioni; quelli più recenti, ordinati ma pieni di cinismo; forse una sessantina di racconti, in tutto, a partire dalla prima volta in cui aveva posato la penna sul foglio con un intento diverso da quello di fare i compiti, cosa che avveniva peraltro raramente. Riflessioni di giorni tristi e meno tristi, poca gioia, a tratti tanta rabbia; c’erano anche alcuni progetti un po’ più ampi e, sperduta nel mezzo di quella prosa serrata, spuntava ogni tanto qualche poesia; almeno, a lui piaceva pensare di poterle definire così.

In pochi avevano letto, ancora meno avevano apprezzato. Forse anche i sogni scadevano, si ritrovò a pensare, e lui aveva aspettato troppo tempo per sentirsi pronto a realizzare il proprio. Aveva atteso a lungo un momento, forse un segno che lo spingesse a far uscire dal buio quella che gli sembrava la fedele trascrizione di un’esistenza, indubbiamente poco interessante, probabilmente poco utile, ma pur sempre autentica. Non l’aveva mai riconosciuto, quel momento, non si era mai sentito guidato da niente, da nessun dettaglio, magari irrilevante per tutti tranne che per lui, da nessun segno determinante; e quei fogli non erano mai usciti da un cassetto se non per farci passare in mezzo le mani, scorrerli uno ad uno con calma o sfogliarli rapidamente e coglierne l’odore; sorridere, a volte, e altre spalancare gli occhi e aggrottare la fronte, perché la persona che aveva scritto certe cose era ormai talmente lontana nel tempo da non poterla quasi più riconoscere.

Con un bicchiere di prosecco, Davide tornò a sedersi sul divano, rimandando all’indomani mattina il lavaggio dei piatti; accese il computer e per un po’ rimase a fissare lo schermo, dal quale i quattro occhi verdi delle sue figlie ancora bambine ammiccavano nella sua direzione.
Pensò che avrebbe dovuto sforzarsi di concentrarsi su qualcosa di mediamente intelligente da scrivere in merito alla dispersione scolastica, articolo del quale Delia gli aveva ribadito quindici volte l’importanza e che, forse, gli sarebbe valso il suo perdono. Prima, però, controllò il display del cellulare in cerca di messaggi da parte delle figlie; alla amara considerazione di non aver ricevuto neanche uno squillo per tutto l’arco della giornata seguì, repentino, il senso di colpa filiale per non aver a sua volta richiamato la madre; temendo ormai di svegliarla, però, passò oltre il suo numero in rubrica e selezionò invece quello di Marta.

– Papà? – rispose la voce della sua primogenita, che sembrava confusa e ovattata, come se provenisse da molto lontano.
– Tesoro!
– Ehi, ciao! Com’è andato il viaggio?
– Tutto bene, grazie! Cosa stai facendo?
– Niente papà, tutto a posto – ribatté lei frettolosamente – sono a casa, tra poco vado a letto.
Davide lanciò uno sguardo all’orologio e sollevò un sopracciglio: non erano neanche le 22.
– Ti ho disturbata, stavi facendo i compiti?
– No papà, tranquillo – e a Davide sembrò quasi di sentirla soffocare una risatina.

Poi udì un tramestio non meglio identificabile; sembrava che qualcun altro, più distante dall’apparecchio rispetto a Marta, avesse cominciato a parlare per poi interrompersi bruscamente.
– Mamma è lì? – chiese, mentre un sorrisetto cominciava a delinearsi agli angoli della sua bocca.

Gli erano improvvisamente tornate alla mente certe teorie di Greta in merito a un compagno di scuola della sorella, un tipo tutto serio che sembrava accompagnasse Marta alla fermata della metro con una certa frequenza, da qualche tempo. In un attimo Davide tornò sedicenne, ancora nascosto nell’androne di un portone di periferia, con la sua prima ragazza stretta a sé nell’angolo più buio e il cuore che batteva forte.
– Ehm, no, mamma è a cena con le colleghe! – rispose prevedibilmente Marta – ci volevi parlare?
– No, no, tranquilla. E Greta invece, è a casa?
– No papà, aveva gli allenamenti e poi si sarebbe fermata a dormire da Chiara. Ma che sono tutte queste domande? – sembrava che cominciasse ad innervosirsi.

Il sorriso di Davide divenne più ampio mentre, passandosi una mano tra i capelli ormai decisamente brizzolati, diceva infine:
– D’accordo tesoro, allora buonanotte! Dormi bene.
– Buonanotte papà, a domani.
Chiusa la telefonata, Davide scosse la testa un paio di volte, mentre quel sorriso si dileguava piano; sullo schermo del suo computer, Marta aveva ancora sette anni e delle lunghe trecce scure, e rideva verso l’obiettivo mentre la sorella le faceva eco da dietro il ciuccio. Con un’imprecazione, Davide si alzò per riempire di nuovo il bicchiere di vino, sentendosi più vecchio che mai.

Il mattino dopo, rientrando dalla redazione con la pregnante sensazione di aver appena consegnato il suo ultimo articolo, stando agli urli non particolarmente amichevoli tra i quali una Delia scarmigliata e truccata in modo frettoloso l’aveva accolto nel suo ufficio, incappò in un ragazzo che usciva dal portone del suo condominio e che per poco non gli fece rovinare addosso il grosso pacco che sosteneva con evidente fatica sulla spalla sinistra.

– Mi scusi! – si gridò dietro il tipo, tornando frettolosamente verso il furgone delle consegne.
Davide abbozzò un sorriso in risposta e stava già per richiudersi il portone alle spalle quando gli tornò in mente il messaggio lasciatogli dalla madre in segreteria.

– Ehi! – esclamò all’indirizzo del ragazzo, un secondo prima che ripartisse – per chi era quel pacco?

Poco dopo, aiutato dal quel tipo piuttosto gracilino nonostante avesse ripetuto più volte di potercela fare da solo, posizionava delicatamente il pacco, sul quale era stato stampato un vistoso timbro con la scritta Fragile, sulla sua scrivania. Rimasto solo, prese le forbici e tagliò di netto lo scotch che chiudeva l’apertura superiore; sollevò le ali di cartone con estrema delicatezza, come aspettandosi di veder spuntare la miccia accesa di una bomba dal mezzo di tutto quel polistirolo. Invece scorse dei tasti di ottone.
Gli parve quasi di risentire l’odore delle tende pesanti, beige, appese davanti alle finestre dello studio, quando abitavano ancora in campagna e a lui era permesso entrare in quella stanza solo assieme a suo padre. Allora si sedeva spesso a terra di fronte alla finestra grande, con le gambe strette al petto e la testa infilata tra le tende; guardava il giardino e i pigri gatti raggomitolati sui gradini, gli uccelli che si alzavano in volo scambiandosi richiami; era capace di trascorrere così tutto il pomeriggio, mentre le ore venivano scandite dal ritmico ticchettio di quella Continental degli anni Quaranta, un oggetto a cui suo padre dimostrava di tenere quasi quanto ai propri figli. L’aveva acquistata usata, in Germania, dando fondo ai propri risparmi per festeggiare l’assunzione in banca, e quasi ogni sera dopo il lavoro e nei weekend in cui non andavano a pescare si sedeva dietro l’ampia scrivania di noce e batteva a macchina.

Era il ricordo più nitido che Davide avesse della sua infanzia; amava vedere suo padre trascorrere tutto quel tempo alla macchina da scrivere, più per il gusto del gesto in sé che per effettiva necessità: oltre a tutte le lettere formali e ai documenti di lavoro, spesso sfilava da quella macchina, con una delicatezza piena d’amore, fogli che venivano consegnati alla moglie o ad uno dei suoi figli; Davide ricordava la curiosità provata ogni volta nell’attesa di scoprire se quel giorno il padre gli avrebbe dedicato qualcosa, magari un raccontino scritto per ridere, un breve ammonimento o una promessa di un regalo in cambio di un compito superato con successo. Era un uomo brillante e la sua arguzia e l’estrema cura per le cose che faceva trasparivano anche dai gesti più semplici.

Con quella macchina aveva scritto la lettera che Davide aveva aperto il giorno della laurea e che ora era appesa sopra quella stessa scrivania; nell’ultima riga, scritta però a mano, con la stilografica che in quello stesso giorno avrebbe poi consegnato al figlio, suo padre diceva: “Per il futuro ho solo due consigli: i sogni sempre in testa e la penna sempre in tasca”. Era andata così.

Davide immerse le mani nei fiocchi di polistirolo, stentando a credere di avere davvero di fronte, in quel pacco di cartone ruvido, quell’oggetto che non vedeva da almeno vent’anni e che tante volte gli aveva tenuto compagnia in sogno con il suo ritmico ticchettio. Le sue mani incontrarono il metallo freddo dei tasti e si incastrarono sotto il corpo di ghisa della macchina nel sollevarla.

Scostò lo scatolone con una spallata e pose la macchina al centro della scrivania, ritraendosi poi subito di un passo, con aria quasi di deferenza. Il suo sguardo corse sui tasti più usurati dagli anni di battitura, si soffermò sul graffio che suo padre un giorno aveva inciso sul lato, maneggiando in modo maldestro il tagliacarte; ricordò il modo in cui quello stesso giorno lontano, a pranzo, sua madre aveva infranto il silenzio ai limiti del luttuoso del marito e, portando in tavola gli spaghetti, aveva osato dire:

– In ogni caso, quella macchina ormai è antica. Potresti cominciare a pensare di sostituirla.
Suo padre non aveva risposto, limitandosi ad accogliere quel suggerimento con un’occhiata truce. La mamma non aveva insistito.
Tra gli imballaggi nello scatolone, Davide pescò una busta rossa; dentro c’era un biglietto sgargiante, pieno di colori, con un voluminoso 50 sul davanti. Sua madre aveva scritto poche righe, ma in ogni caso non ci sarebbe stato molto altro da aggiungere:
“Tuo padre diceva sempre che il primo giorno in cui ti permise di scrivere il tuo nome con questa avresti potuto toccare il cielo con un dito. È stata per tanti anni su una mensola, ma forse in fondo ha ancora un po’ di lavoro da fare. Buon compleanno! Mamma”.

Davide si sedette alla scrivania, le mani gli tremavano in un modo che non aveva più sperimentato dai tempi delle interrogazioni di matematica. Prese il primo foglio bianco capitatogli sotto mano e lo inserì delicatamente nella macchina, riscoprendo i gesti che suo padre gli aveva insegnato a compiere da bambino. Posizionò il carrello con cura, poi tenne i polpastrelli sospesi a un centimetro dai tasti per un secondo interminabile, prima di calarli a scrivere Davide. I timbri scattarono e, quando tornò a guardare il foglio, i caratteri del suo nome impressi con precisione su quello sfondo bianco gli provocarono lo stesso brivido di quarant’anni prima.

Mandò a capo e provò a premere i vari tasti, il ticchettio gli parlava con la voce di un amico d’infanzia. Lacrime calde traboccarono dai suoi occhi, alla fine, e lui non si preoccupò di asciugarle, continuando a far scorrere entrambe le mani sulla macchina, veloci; piangeva perché il nastro era carico, i tasti funzionavano tutti, il carrello era stato recentemente oliato con cura e il suo sogno era di nuovo lì. In realtà non se n’era mai andato.
Davide si alzò, coprì con sette passi la distanza dalla scrivania alla cucina e tornò indietro, con un sorriso ancora umido e incerto che non rivolgeva ad altri che a se stesso, perché nemmeno la vicina curiosa era in finestra, quel giorno, ad assistere allo spettacolo di un sogno ritrovato. Ripeté quel percorso per quattro, forse cinque volte, masticando un sigaro spento, poi si arrestò improvvisamente di fronte alla macchina; sfilò il foglio in cima al quale aveva scritto il suo nome e lo sostituì con un uno pulito, si sedette, prese un respiro.

Fuori, il sole splendeva con la bellezza struggente e fuggevole che assume soltanto d’inverno. Della nebbia non c’era più traccia.
Davide pensò che avrebbe proprio dovuto chiamare la madre, più tardi. Pensò che gli sarebbe piaciuto uscire in quel sole con Alessia e prendersi per mano, più tardi. Pensò che un giorno, forse, avrebbe potuto dire a Marta di averla sgamata, quella sera, e buttarla sul ridere, ma poi si disse che non avrebbe potuto farlo neanche due o tre decadi più tardi.
Però avrebbe telefonato anche a lei e a Greta, avrebbe raccontato loro del regalo di compleanno della nonna e, anche se non era bravo in quel genere di cose, si sarebbe sforzato di dir loro ciò che era veramente importante, ciò che di più vero gli aveva lasciato suo padre: che si ritorna sempre ai propri sogni, alla fine.

Intanto, con mano ormai ferma, aprì il primo cassetto della scrivania.


 

Screenshot_2014-08-29-09-20-59Beatrice Sensini è nata a Viterbo nel 1993 ed è attualmente studentessa di lettere classiche presso l’Università di Pisa. A chiunque, fino al 1997 circa, le abbia chiesto cosa avrebbe fatto da grande, ha risposto “la camionista”; a quelli arrivati dopo quella data, “la scrittrice”. Da qualche tempo si rende conto della pretenziosità di entrambe le risposte e si mantiene più sul generico, ma non ha ancora messo via tutti i sogni

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Giulia

Giulia Pedonese, classe 1992, ha cominciato a scrivere prima di sapere la grammatica e, visto che nessuno è riuscito a fermarla, studia lettere classiche all'università di Pisa. Ama cantare, non ricambiata, e nel frattempo si è data un nome d'arte con i baffi.

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