27 Luglio 2024

Il 1989 fu un anno di cambiamenti epocali per il sistema internazionale. In quell’anno, Mikhail Gorbachev, ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione sovietica, dopo aver lanciato la glasnost’ (trasparenza) con l’obiettivo di combattere la corruzione e i privilegi del sistema politico sovietico, assisteva all’abbattimento del muro di Berlino. Quel “Cigno nero”, quel grande evento imprevisto, pose le basi per la riunificazione tedesca, l’inesorabile crollo del blocco orientale e la fine della Guerra fredda.

Ma mentre ad Occidente, in novembre, si festeggiava la fine della “Cortina di ferro”, ad Oriente non si celebrò alcuna vittoria della democrazia quell’anno (e neppure negli anni successivi). Eppure, l’eco delle politiche di Gorbachev aveva raggiunto anche Pechino e nella primavera ’89 ci furono grandi manifestazioni di piazza che chiedevano trasparenza al governo di Li Peng, ancora controllato da Deng Xiaoping. Il regime, lo stesso che tutt’ora guida il paese, rispose con l’uccisione un numero imprecisato di studenti, dimostranti e comuni cittadini. Non si sa esattamente quante siano state le vittime della più grande ed impunita strage di Stato della storia recente, perché in Cina, ancora oggi, è severamente vietato parlarne. Sono proibite le commemorazioni, non c’è mai stato un processo, tantomeno un condannato e lo Stato leviatano oscura qualsiasi contenuto internet che ne parli. Per Pechino è un massacro che non esiste. Eppure, le vittime furono tante quante quelle di un conflitto armato.


Le stime ufficiali del governo cinese parlano di non meno di 300 morti, quasi 6000 i feriti. Le stime della Croce rossa cinese, invece, già all’epoca dei fatti, indicavano tra le 2600 e le 2700 vittime. Nella più recente stima, proveniente da un documento declassificato della diplomazia inglese, firmato dall’ambasciatore Sir Alan Donald e dalle testimonianze di tanti sopravvissuti, esuli in mezzo mondo, si parla di quasi 10.000 vittime, massacrate dalle forze dell’Esercito Popolare di Liberazione. Il maggior numero di esse fu uccisa in Piazza Tienanmen, a Pechino, cuore delle proteste, nei primi giorni di giugno del 1989.

Per circa due mesi, centinaia di migliaia di manifestanti cinesi scesero in piazza chiedendo profondi cambiamenti e sfidando il Partito. Fu persino eretta una statua alta dieci metri, battezzata Dea democrazia, provocatoriamente simile alla Statua della Libertà newyorkese. Il leader Deng Xiaoping ed i membri anziani più conservatori del partito, sordi alle richieste degli studenti, accusarono i partecipanti di quelle pacifiche manifestazioni di complottare contro lo Stato. Temevano che “i tumulti” si diffondessero in altre città e che fossero usati per rovesciare il regime comunista. Grazie all’opera di Gorbachev, si era diffuso anche in Cina il bisogno, in quella primavera ’89, di discutere del futuro politico della nazione. Ed anche se una visione multipartitica occidentale non era mai stata presa in considerazione, esisteva un dibattito, nelle Università ed all’interno del Partito, riguardo l’esigenza di avere una migliore supervisione dell’operato di governo e su un certo livello di separazione tra le funzioni dello Stato. Si ricordi, a tal proposito, che in Cina neanche la Magistratura è libera, è soggetta al controllo del Partito unico.

Nell’appello degli studenti cinesi, pubblicato il 13 maggio 1989, si legge che “il paese è arrivato a un punto cruciale: il potere politico domina su tutto, i burocrati sono corrotti, molte brave persone con grandi ideali sono costrette all’esilio. È un momento di vita o di morte per la nazione. Tutti voi compatrioti, tutti voi che avete una coscienza, ascoltate le nostre grida”.  I rappresentanti degli studenti, portavoce di una Cina che non esiste più ed a cui fu impedito di nascere, calpestata dallo stivale dei militari, “si sono messi in ginocchio per implorare “democrazia”. Ma sono stati totalmente ignorati. Le risposte alle richieste di un dialogo paritario sono state rinviate e ancora rinviate. Che altro dobbiamo fare? La democrazia è un ideale della vita umana, come la libertà e il diritto. Ora, per ottenerli, noi dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite”.

 

Alla mobilitazione di quella massa di studenti, professori, lavoratori e membri più moderati del Partito, Deng Xiaoping e Li Peng risposero diversamente da quanto avrebbe fatto Gorbachev dinnanzi ai fatti di Berlino. Il leader cinese dispiegò l’esercito in assetto da guerra. Al massacro degli studenti seguì l’epurazione del Partito e la stabilità politica divenne la priorità. Da allora, sebbene la Cina si sia aperta all’economia di mercato, il partito ha mantenuto intatto il suo potere autoritario ed ha tenuto a distanza qualsiasi riforma politica. Xi Jinping, l’attuale Presidente, ha addirittura modificato la Costituzione per mantenere il potere a vita, ricevendo l’approvazione del Congresso per annullare la barriera dei tradizionali due mandati quinquennali.

Ma tornando brevemente a quei giorni del 1989, ci basti sapere che la notte del 3 giugno, nonostante alcune unità dell’esercito si fossero rifiutate di prendere parte al massacro ed i cittadini di Pechino si fossero riversati per le strade per arrestare l’avanzata dei militari fedeli agli ordini del Partito, 200.000 uomini dell’Esercito Popolare di Liberazione dilagarono nella Piazza e nei luoghi di assembramento dei manifestanti, aprendosi la strada con le armi. Gli scontri che seguirono durarono per giorni, non soltanto in quella Piazza e non soltanto a Pechino. Finirono con la morte o la resa degli oppositori, la vittoria della linea dura e la sconfitta di ogni speranza di libertà politica.

Sebbene la foto più celebre di quei giorni sia quella del Rivoltoso sconosciuto, scattata da Jeff Widener e raffigurante l’azione di un singolo uomo che, con straziante coraggio, riesce ad arrestare l’avanzata di una colonna di carri armati, abbiamo il dovere di ricordare l’eccezionalità di questo scatto. Migliaia di giovani cinesi, altrettanto coraggiosi, desiderosi di vivere in una nazione che considerasse la democrazia un “ideale della vita umana”, perirono per volontà dello stesso partito che ancora governa la Cina.


Lamberto Frontera

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Lamberto Frontera

Classe 1995, laureato in Relazioni Internazionali presso l'Università degli Studi di Firenze, appassionato di storia, politica ed economia, oltre che di informatica, cinema ed arte, scrive per Uni Info News dal 2015

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