27 Luglio 2024

Che la “cancel culture” sia un’invenzione dei media italiani è parzialmente vero, piuttosto è vero che questa definizione si è affermata nel dibattito pubblico tramite l’eccessiva enfasi posta su piccoli episodi avvenuti in realtà locali e rilanciati da quotidiani, riviste, siti d’informazione, blog e influencer per ragioni di logica dei media, dove questo concetto indica che tutti i principali tipi di contenuti proposti dagli attori mediatici, seguono formati standardizzati, ben radicati in tradizioni, idee, gusti e interessi del pubblico e ben vincolati in modelli spazio-temporali, che rispondono alle preferenze e ai gusti dell’ascoltatore, così come alle capacità dei mezzi di comunicazione. Il concetto di logica dei media è dunque utile per indicare la predilezione degli operatori dei media verso quei fattori che aumentano l’attenzione e la soddisfazione del pubblico, ed è un concetto essenziale per capire il dibattito pubblico sollevato dai media. La comprensione di questo principio è l’antifona che ci può introdurre a capire che anche se le notizie che riguardo la cosiddetta “cancel culture” sono in effetti l’enfatizzazione di notizie locali e piuttosto circoscritte (dalle statue abbattute, alle notizie sulle censure del mondo accademico anglo-sassone, fino alla vicenda di Biancaneve), queste trovano comunque fondamento nel dibattito pubblico, creando uno scontro tra posizioni diverse, indignazione, e dunque un posizionamento degli utenti in un estremo piuttosto che in un altro. Detto in parole semplici potremo dunque dire che anche se nello specifico la notizia di Biancaneve è stata “gonfiata”, questo non cambia il fatto che la sua enfatizzazione abbia comunque suscitato un forte impatto del tema generale della rilettura della morale e degli stereotipi presenti nelle fiabe. Vediamo dunque che se una notiziola diventa una notizia di grande impatto è perché riguarda un tema non banale, che piace al pubblico, che incontra i gusti degli utenti dell’informazione, e tutto ciò che fa discutere a livello di opinione pubblica presuppone una serie di opinioni, di schieramenti, di posizioni politiche, culturali e di visioni sociali. In questo senso allora sarebbe più giusto dire che la “cancel culture” in senso specifico non esiste, ma che in generale i temi portati alla ribalta da queste notizie esistono, e creano un dibattito piuttosto acceso.

Cercando di essere il più possibile obiettivi e porci criticamente nell’analizzare questi temi, è lecita la posizione di chi sostiene che gli stereotipi sono frutto di una determinata cultura e che contribuiscono a creare una visione morale ed etica nella società, che a sua volta contribuisce al perpetrare certi stereotipi, e così via, in quello che sembra essere un circolo vizioso senza fine. Tali stereotipi creano delle aspettative sociali legate ai ruoli di genere, alla razza, alla religione e a tante altre categorie sociografiche, senza però dimenticare che li stessi stereotipi, che come si è già detto sono figli della cultura, non sono mai rimasti identici, ma nel corso della storia umana sono cambiati, sono evoluti, certe volte sono persino regrediti, ma in fin dei conti hanno conosciuto uno sviluppo che ricalca la storia dei diritti umani.


Facciamo un esempio: se prendiamo il concetto di libertà, notiamo che per gli antichi, soprattutto nelle società greca e romana che si fondavano sulla schiavitù, la libertà non era definita in senso positivo, ma negativo: è libero chi non è schiavo, ma la schiavitù era una condizione socialmente accettata, che faceva parte della cultura del tempo. Poi nel mondo romano si è sviluppato il cristianesimo, e dopo la “svolta costantiniana” la cultura dominante pervasa dalla cristianità, è iniziata a cambiare, e cambierà molto lentamente, tornando più volte indietro, fino a quando i diritti dell’uomo verranno messi al centro grazie all’illuminismo e alle grandi rivoluzioni politiche che decreteranno la fine della cristianità (cioè del legame tra il cristianesimo e il potere politico per come conosciuto da Costantino fino al secolo dei Lumi) e l’inizio della modernità. Sintetizzando oltre ogni modo potremo dire che soltanto dopo questi passi la libertà dell’essere umano, per lo più maschile, inizierà a svilupparsi in termini positivi e in senso laico, celebre rimarrà ad esempio il pensiero di Benjamin Constant sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, ma tutto questo non sarà un punto di arrivo, bensì un ennesimo punto di svolta della più generale evoluzione del pensiero umano, che oggi si è spinta fino ad un mondo sempre più plurale e inclusivo, almeno in occidente.

Prendendo ad esempio la breve sintesi della storia del concetto di libertà sarebbe facile come contemporanei sentirci autorizzati a condannare la visione degli antichi, in quanto la schiavitù è una pratica ingiusta, che non deve appartenere alla nostra società. Lo stesso discorso potrebbe valere per la violenza storica, le guerre, le disparità, e tanti altri concetti su cui ad oggi riteniamo di essere molto più evoluti dei nostri antenati e progenitori. Verrebbe facile condannare i grandi pensatori del passato, i grandi condottieri, i grandi politici del passato, in quanto sanguinari, misogini, classisti, ecc. Ma d’altra parte non ci sarebbe niente di più sbagliato e superficiale del censurare o condannare il passato valutandolo con le categorie moderne, questo perché comprendere il nostro passato ci aiuta a capire il nostro presente, nonché l’evoluzione che ha portato alla nostra cultura.

Al di là dei discorsi da bar, volutamente ignorati in questo articolo, se comprendere è necessario per capire e migliorare la società, è proprio questo che chiedono molti divulgatori e molte divulgatrici del web, nonché sociologi, e altri pensatori che si inseriscono nel dibattito della cosiddetta “cancel culture”: non dobbiamo censurare proprio niente, ma dobbiamo aiutare a comprendere. Niente di più giusto in una società plurale come quella contemporanea, e in effetti il problema fondamentale è proprio sul come attuare questa comprensione.

Ci sono molti che sostengono che sia giusto accompagnare cartoni, film e libri con un disclaimer iniziale o una prefazione critica, in quanto è opportuno informare lo spettatore che quello che sta per vedere contiene messaggi derivanti da stereotipi fondati su visioni etiche, culturali e morali che danneggiano la società creando discriminazione (una sorta di “don’t try this at home”). Mentre altri, più libertari, sostengono che così facendo si cerchi, in modo un po’ moralistico, di imporre una visione culturale, etica e morale, andando contro alla libertà di pensiero, è dunque più giusto lasciare le persone libere di valutare criticamente quello che stanno per vedere o leggere a seconda del loro pensiero, senza imporre alcun tipo di disclaimer o prefazione. Riflettendoci a fondo, questi due filoni di pensiero portano a due degenerazioni: la prima, quella della comprensione “imposta” dagli editor di contenuti, siano essi libri, film, articoli o opere d’arte, può portare ad un nuovo tipo di moralismo che vorrebbe scegliere e imporre a tutti cosa sia giusto o sbagliato per la società e per la nostra cultura, mentre la seconda, quella più libertaria, porta con sé il rischio che chi non ha i mezzi per comprendere certi stereotipi, influenzato da questi, continui a perpetrare comportamenti discriminatori.

Su queste ultime considerazioni si apre un problema ben più complesso, che riguarda la libertà educativa e la coscienza dell’individuo: è legittimo che lo stato, un’istituzione o una particolare categoria che controlla i mezzi di informazione, l’arte, il sapere o che influenza la cultura, ci dica cosa è giusto e cosa è sbagliato? È forse più giusto invece che ognuno di noi possa essere libero di scegliere cosa guardare, cosa leggere e cosa pensare, senza venire influenzato a-priori?

Certamente se educare è fornire gli strumenti ad una persona per comprendere la realtà al fine di scegliere liberamente a seconda della propria identità, delle proprie inclinazioni, e accettare così le conseguenze delle proprie scelte, suona un po’ male la volontà di imporre in partenza un’ermeneutica unificata delle opere d’arte e dei prodotti culturali presenti o passati (film, libri, fiabe, pensieri, ecc), ma d’altra parte il mondo della scuola, della ricerca e della cultura non possono neanche esimersi dalle loro responsabilità educative nei confronti delle nuove generazioni. Dunque vien da sé che il problema non è di così facile risoluzione, e che quando tendiamo a semplificare e a polarizzare certe tematiche, forse dovremo tenere conto del fatto che la realtà è sempre più complessa e non può essere giudicata con leggerezza.


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