BIOGRAFIA AUTORE: M.Antonietta Drago è nata a Livorno nel 1982. È laureata in giurisprudenza presso l’Università di Pisa. Da alcuni anni lavora nel settore sociale e coltiva la passione per le tematiche dell’educazione alla mondialitá e dell’immigrazione.
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NETO – Ep. 2/4
Cominciai a voler immaginare case fatte di spazzatura per dare concretezza a quelle parole, un po’ anche per cercare di ripristinare un mio equilibrio interno, in nome di una razionalità e logicità che aiuta l’essere umano a semplificare le faccende del mondo che vive e che gli accadono. Non era facile immaginare di abitare nella spazzatura: per me la spazzatura era qualcosa da scartare, un rifiuto da buttare nell’apposito contenitore che si trova in strada ed invece, in base a quanto mi aveva detto quel bambino, dove viveva lui addirittura la spazzatura era un qualcosa che veniva utilizzato, non di scarto, che formava la casa dove viveva con i suoi fratelli e la mamma. Ma come si può vivere nella spazzatura? Come può la propria camera e la cucina essere fatte di spazzatura? Sai che odore! Mi veniva da fargli tante domande: se andasse a scuola, cosa mangiasse di solito, se fosse felice…Ma ero bloccata.
Intorno a me non c’era nessuno, sentivo il vento che soffiava tra le foglie degli alberi e che rimbalzava poi sul mio viso. Avevo dei brividi di freddo e mi chiusi nelle spalle per ripararmi dal freddo e dall’imbarazzo che stavo provando.
Ad un certo punto, quel bambino mi chiese di alzarmi: mi voleva portare a vedere qualcosa. Ma dove mi voleva portare? Villa Ada la conoscevo bene perché ogni tanto, ormai da molti anni, andavo lì per fare una passeggiatina, per rilassarmi o per riflettere quando dovevo prendere una decisione o fare una scelta importante della vita. Non so perché mi alzai e una volta in piedi la sua mano amichevole prese la mia e cominciò a condurmi al di là del vialetto. Seguivo quel bambino come se lo conoscessi già e soprattutto mi animava un senso di curiosità inaudito. Costeggiammo la siepe che si allungava sulla destra della panchina e, girato l’angolo, ci ritrovammo inspiegabilmente nel quartiere Lixeira di Luanda, in Angola. Sì, proprio così, come se fossi stata catapultata improvvisamente dall’altra parte del mondo, in una città che non conoscevo, nell’anima più profonda del mondo. Davanti a me c’erano terra chiara e polvere che facevano da contorno a piccole case costruite sopra la spazzatura. Fogne a cielo aperto scorrevano di lato alle case e un odore nauseabondo avvolgeva ogni cosa. Non potevo crederci: stavo osservando con i miei occhi quanto avevo appena ascoltato da quel bambino che mi teneva ancora per mano e che mi mostrava la sua realtà, dove ogni giorno scorreva la sua giovane vita. Ero immobile, ancora più indirizzita di prima e non riuscivo a capacitarmi come una situazione del genere potesse trovarsi lì, a Villa Ada, nella verde Villa Ada, dove ogni tanto andavo per ossigenarmi i polmoni e stare spensierata.
Un pezzo di Lixeira si era improvvisamente radicato tra i vialetti di quella villa pubblica, dall’altra parte del globo, e mentre i bambini giocavano nel prato a “palla avvelenata”, in quello squarcio di terra chiara, altri bambini con la pelle più scura, scalzi, giocavano a pallone per la strada, tra la spazzatura. Ad un tratto il bambino che mi aveva condotto fin lì, mi lasciò la mano e mi disse, sorridente, di andare con lui e con i suoi amici a giocare a pallone, laggiù, sulla strada fatta di polvere e terra battuta. Sgranai gli occhi: io, lì, a giocare a pallone con dei bambini, io che non sapevo giocare a calcio e che nemmeno ne avevo tanta voglia, io che ero andata a fare una passeggiatina per rilassarmi e stare un po’ tranquilla, io che…, io che…Ma tutte queste resistenze e paranoie che mi stavano affollando la mente, in un attimo divennero degli echi lontani che rimbombavano dentro di me ma sempre più in maniera ininfluente rispetto alla scelta che stavo per fare. Infatti mi mossi e andai dietro a quel bambino, verso gli altri bambini, con l’intenzione di conoscerli e di stare un po’ con loro, e anche di giocare a pallone. Un “Ciao” gridato mi accolse ed io ricambiai. “Ti presento i miei fratelli Grazo e Edgar e i miei amici Julito e Mariano”, disse il bambino. “Piacere”, risposi e tesi la mano verso di loro che ridendo me la strinsero. Bene, dopo questa piacevole e calorosa accoglienza, ero pronta a giocare a calcio. Velocemente ci dividemmo in due squadre da tre persone ciascuna e senza dover concordare regole particolari, cominciammo a giocare. Che scena doveva essere vista dall’esterno! Ma in quel momento non mi importava niente di che cosa potessero pensare e dire eventuali passanti, perché una sensazione di gioia e verità cominciava ad invadermi le vene ed era talmente forte da resistere a ogni tipo di pregiudizio. Correvo da una parte all’altra del campo di gioco improvvisato su quella terra chiara battuta, cercando di intercettare la palla che Grazo e Mariano, i miei compagni di squadra, mi passavano con scatti felini. Su cinque passaggi, se andava bene, riuscivo a stopparne uno, per non parlare poi dei tiri che facevo. Affannavo dietro a quel pallone un po’ sgonfio come mai avevo fatto nella mia vita, ma mi divertivo un sacco. Dopo circa venti minuti di gioco ininterrotto, dovetti alzare bandiera bianca: mi arrendevo, non potevo competere con delle gazzelle nate, che senza affaticarsi più che tanto, correvano veloci, a piedi nudi, di qua e di là. Mi fermai e mi sedetti di lato, non avevo più lo smalto atletico di una volta, dovevo riposarmi, respirare e possibilmente anche bere perché una forte arsura aveva attanagliato la mia bocca. I bambini, che fino a quel momento avevano gridato, riso e corso, si fermarono in silenzio e vennero subito intorno a me a vedere come stessi. Mi guardavano tra il preoccupato e il canzonatorio, non sapendo se mi sentissi poco bene o fosse solo un attacco fisiologico di stanchezza di una ragazza ormai non più tanto giovane. Li tranquillizzai subito: stavo bene, ero solo un po’ stanca e affaticata. Avevo delle vampate di calore: mi sentivo riscaldata ed ero contenta.
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