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Oggi pubblichiamo il quinto capitolo di una storia in sei puntate al confine tra sogno e realtà, firmate Alice Rugai. Buona lettura!
SUNSET
I dolori della giovane Beatrice
di Alice Rugai
“Pronto?” “Salve, parlo con Anna?” “Sono il fratello..Annaaaaaaa teleeeeeeefonoooooo” “Peste mi collego da su…riattacca..Pronto?” “Ciao Anna sono la mamma di Beatrice e sono preoccupata perché non esce da una settimana dalla sua stanza, sai cosa è successo?” “Pensavo fosse partita con Thomas visto che non mi rispondeva ai messaggi” “No, si trova in camera sua e si rifiuta di aprirmi e non so se mangia. Potresti venire?” “Certo certo, fra venti minuti sono da voi” “Ti ringrazio, non sapevo che fare” “Si figuri”
“Tesoro c’è qui Anna, ci apri?” “Bea dai ci sono qua io con dei marshmallow giganti a far passare tutto” Finalmente la porta si apre. “Scusa mamma ma non ho proprio voglia di mangiare, giusto un marshmellow però…” “Eh lo sapevo, come ti conosco bene!” “Grazie Anna” “Si figuri signora, davvero” “Chiamami Claudia”
Non era il caso di esagerare. Di lì a poco avrei avuto un esame, la maturità dannazione. Mi stava lasciando? Dove era scomparso? Dove?
“Bea non dovresti far assenze a scuola” “Credi che non lo sappia?” “Strano che tua madre non ti abbia trascinata fuori a calci” “Non è periodo per nessuno” “Già… ma vedrai che salterà fuori quello scemo, ha anche lui un esame” “Cosa vuoi che gliene importi ad un vampiro di uno stupido esame?” domandò Bea con la bocca piena di zucchero gommoso, alzando il volume del video di youtube che stava guardando. “Bea…”. Il video degli Owls era alla fine. “Bea… non piangere” “Tu non mi credi, nessuno mi crede… e non ho nessuno al mondo” “Questo non è vero” si offese l’amica, alzandosi di scatto e facendo cadere una pila di libri appoggiati sul bordo del letto. “Appoggi libri ovunque… No! Bea ti sei rimessa a leggere questa robaccia? Ti ho detto che ti fa male” affermò Anna e gettò il primo volume della saga della Meyer nel cestino colmo di fogli. Bea era stravaccata sul pavimento, in lacrime. “Ora la fai finita, dammi il cellulare”. Dopo un po’ di resistenza la ragazza riuscì a strappare il Nokia dalle mani della disperata che stava per inviare il 47esimo messaggio. “Devi reagire” “Ah ah ah”. Anna spense youtube e uscì dal facebook dell’amica, che era aperto sulla bacheca di Thomas. “Domani verrai a scuola e ti prometto che all’uscita e a ricreazione indagheremo assieme…lo troveremo…Tu stai lontana dai tuoi romanzi ottocenteschi o vampirosi e tutto ciò che te lo fa ricordare…almeno fino a domani mattina…me lo prometti?” “Mmm”
Che richiesta assurda. Non bastava mica smettere di leggere le lettere di Shelley, non erano certo le parole della Radcliffe o le scene della Mayer che le ricordavano lui. Almeno, non erano solo quelle. No di certo. Era il cuscino, era la finestra, erano le lenzuola, era il suo profumo nell’aria, era la sua mancanza. Mai era stato presente come in quel momento.
“Neanche un po’ di Austen?” “Non ti ci provare”
La classe era la solita. Nessuno pareva accorgersi del terribile vuoto che c’era nell’ultima fila. Beatrice non riusciva a stare attenta e disegnava sul diario. Anna osservava il suo comportamento preoccupata. Continuava a scrivere il nome di Thomas.
Thomas.Thomas.Thomas.Thomas.Thomas.Thomas.Thomas.Thomas.Thomas
….fino al suono della campanella.
Anna dovette andare in bagno per rispondere al cellulare che suonava e la depressa fu lasciata sola, ma lo rimase per poco, perché il Giacometti colse subito l’occasione per farsi avanti.
Ci mancava solo questa. Povero Giacometti. Non che abbia qualcosa contro quel piccolo nerd brufoloso, ma è veramente triste che torni a provarci con me solo perché Thomas è scomparso. Veramente triste, poveraccio.
“Ciao Bea” “Ciao Giac” “Scusa, ma quello che sto per dirti non ti piacerà”. “Non avevo dubbi” pensai in quel momento. Quanto ero stolta, il ripensarci adesso, caro diario, mi fa soffrire nel profondo. E sono passati solo due mesi. Solo due. Ma io sono cambiata radicalmente e ho deciso di mettere una Fine alla tua storia, anche perché poi le pagine stanno finendo. Dopo la conversazione col Giacometti ero confusa. Lì per lì le sue parole mi erano sembrate i deliri di un pazzo, ma piano piano, ogni sua frase ricomponeva un puzzle della realtà che io non avevo saputo vedere, o, meglio, non avevo voluto vedere. Non ricordo esattamente cosa mi disse Anna, non ricordo esattamente il Giacometti e il professore di ginnastica. Non so nemmeno se qualcuno mi accompagnò o presi l’autobus. Ricordo solo che ero convinta ad andare per dimostrare il contrario, che tutto quello che sembrava reale era invece una fantasia, e che il mio vampiro non si trovava là.
“Salve, vorrei vedere Thomas Ramsauer” “Il passo per le visite è fra un’ora” “Ma io sono la ragazza..” “Mi spiace… sei Beatrice, giusto?”. La ragazza guardò la dottoressa con sguardo pieno di innocenza nonostante i chili di mascara ed ombretto nero. “Sono la mamma di Federico” “Ah, grazie, aspetto qui” e si sedette su una seggiola gialla come le sue all star. Dalla finestra della sala d’aspetto filtrava un sole caldo e tranquillizzante. Era una bella giornata, la fine della scuola, l’esame e la libertà si avvicinavano. Aprì “Northangher Abbey” della Austen e si inoltrò nella lettura fino a che una infermiera la avvertì che poteva passare.
29B. “Si è appena svegliato, per adesso non c’è nessuno dentro” “La ringrazio”
Il vampiro giaceva con gli occhi socchiusi nel letto di ospedale, tutto pieno di orribili tubicini collegati a sacche di sangue. Le lacrime furono immediate e il cuore iniziò a pompare più velocemente. “Mamma?” Thomas aprì gli occhi del tutto e scoprì la sua fidanzata piangente ai piedi del letto. “Bea!” urlò, cercando invano di issarsi seduto. “Bea! Cosa diavolo ci fai tu qui?”. Beatrice non rispose, lui comprese. “Mi vorrai fare la stessa domanda, immagino” “Mi hai mentito” singhiozzò la ragazza, il viso come un’elegante lettera resa illeggibile da una pioggia forte. Thomas si voltò verso la finestra e scappò qualche lacrima anche a lui. “Non avresti dovuto venire qui, non avresti dovuto vedermi così” “Non avresti dovuto mentirmi” “Tu dici?” “Quindi è vero” “Sì, ho la leucemia”. Beatrice si sedette in silenzio, fissando il muro, per una decina di minuti e con l’inchiostro dei suoi occhi iniziò a scrivere sulle bianche lenzuola tutto ciò che ancora non aveva detto, tutto ciò che doveva esser scritto, tutto ciò che era difficile scrivere e tutto ciò che era elementare da esprimere. Pianse tutta la sua cecità, la sua immaginazione, ogni pagina letta, ogni pagina scritta, ogni illusione, ogni sogno ed ogni reale momento perduto.
“Dopotutto hai comunque bisogno di sangue”. Thomas rise. “Mi ami ugualmente?” “Come potrei fare altrimenti, stupido?” “Anche io…mi dispiace di aver mentito…forse..” “Mi avresti lasciata sola, dopo tutte le promesse, mi avresti abbandonata…dal nulla, senza un saluto..” “Ti ho scritto una lettera, sarebbe arrivata una volta che io…” “Non lo dire, ti prego” “una volta che io me ne fossi andato”. Beatrice lo prese per mano. “Posso sdraiarmi accanto a te?”. Thomas le sorrise e la ragazza si accovacciò nell’angolo del letto. “Veramente è così grave? Non è che magari?” “No” “Posso morire con te? Posso essere la tua Giulietta? Occhi guardatelo per..” sussurrò, con la voce sempre più debole. “Non piangere, ti prego, e per una buona volta vivi la tua vita, scrivi la tua storia e non scopiazzare” la pregò Thomas ed al consiglio accompagnò un ultimo dolce bacio.
Forse fu quella frase che mi portò a scrivere. O forse fu svegliarmi assieme a Catherine Morland in una mattina di sole, la settimana seguente, dopo aver dormito nella 29B, come al solito, contro gli ordini delle infermiere perfide, accanto alla madre di Thomas. Era una bella donna, molto chiara di carnagione, e sarebbe potuta benissimo passare per una vampira. I capelli erano neri come la notte e vestiva in modo impeccabile; sorrideva poco, ma quella mattina quando mi svegliai e la trovai accanto a me sfoderò tutta la sua dentatura in maniera evidentemente forzata. Forse fu il suo sorriso, il caffè che mi offrì, forse fu quello che mi spinse ad aprire il file di word qualche giorno dopo. Forse fu quel giorno che mi rese una scrittrice. Avevo dormito abbracciata a lui fino alla fine, non avevamo sprecato un momento, non un sospiro, non un bacio, non una parola. “Ti ringrazio, non avevo mai vissuto prima conoscerti” “Mi mancherai” avevamo programmato ogni cosa, il nostro ritrovarci, prima poi, tra le pagine di qualche libro, o in qualche altro mondo.
Mi piace pensare che sarà con me ad ogni voltare di pagina, ad ogni ansia di fine capitolo, ad ogni mio perdermi, ad ogni mio ritrovarmi. Mi piace pensare che, dopotutto, quello che abbiamo vissuto era ben lontano dalla normale sopravvivenza, era qualcosa di potente, speciale, sovrannaturale. Il nostro amore era una condanna eterna. Mi piace pensarla così.
Al funerale tutti vennero a saperlo e tutti vennero a vederlo. Pare avesse tanti amici nel paese dove abitava prima, che era in realtà a pochi kilometri da casa mia, e nessuno sapeva perché si era trasferito così all’improvviso. Per la prima volta vidi Anna con una maglietta nera e, in maniera quasi infantile, la cosa mi emozionò e pensai al commento che Thomas avrebbe fatto. Non aveva dato disposizioni riguardo al suo funerale, non amava parlarne, ma ero sicura che vedere Anna e Giacomo vestiti di nero l’avrebbe fatto ridere: non sembravano neanche loro. Anna non si era neppure truccata e il suo uomo pareva un mafioso anni venti. C’erano proprio tutti: perfino mio padre si fece vivo ed ebbe il buon gusto di arrivare con una macchina diversa da quella della Sforza. I professori erano nelle ultime panche assieme a quello che pareva il controllore del bus, il Giacometti e sua madre, e mia madre. Era una pagliacciata, ecco cosa avrebbe pensato Thomas, e sarebbe corso via. “Ma devo farti un discorso come si deve, stupido” “Hai ragione, penso di meritarmelo, anche se non sono credente” “Infatti, poi stasera commentiamo ognuno dei presenti” “Ci sto” E mi avrebbe baciata prima di sedersi, scocciato, facendo svolazzare il suo giubbetto nero.
Ecco perché non c’era nulla da fare. Che storia triste. Peggio della mia cara Maria. Chissà se si conosceranno. Non sono io che devo scrivere la loro storia, temo. Non ne ho il diritto, di rubare i sentimenti altrui, non è da me. Specie per vanagloriosi progetti come scrivere un romanzo. Suvvia. “Condoglianze” “La ringrazio, lei è il controllore? Conosceva Thomas?” Come posso spiegare? Come posso ammettere che mi ero affezionato a quel ragazzo che prendeva spesso il bus? Come posso dire che mi ricordava me da giovane e mi ero appassionato alla sua storia? “Sì, avevamo parecchie cose in comune” “Ah” “Secondo me dovresti scrivere” “Cosa, scusi?” Ma cosa sto facendo? Sto spaventando una povera adolescente in lutto, come mi ha rimbecillito la vecchiaia! “La vostra storia….Il libro, ecco, io lo comprerei” “ La ringrazio, se dovesse essere pubblicato le regalerò una copia” Dopotutto questa ragazzina non mi sembra minimamente terrorizzata.
Forse fu questo allora che mi spinse a scrivere? Non so esattamente, ripeto. Forse c’era sempre stato dentro di me questo bisogno, mi ero stancata di leggere e basta le storie degli altri: avrei finalmente scritto la mia. Secondo me uno se deve scrivere lo sa sin dalla nascita, poi però magari si trascura o preferisce accontentarsi di vivere nei mondi già creati ed impacchettati con copertine eleganti. È più facile, se non altro.
“Potresti scrivere una specie di nuovo Twilight 2 “ “Anna, quello l’hanno già scritto” “Ma fai come se facesse parte di quello…chiamalo simile..che ne so…” “ Plenilunio” “Ecco! Vedi che le idee ti vengono?” “Anna anche quello è stato già scritto” “E te allora scrivi Tramonto!” “Anna sei geniale a volte” Anna montò sulla seggiola e sventolò la mano con fare da regina di Inghilterra, senza capire minimamente il motivo della sua genialità. “Grazie, grazie…” “Ora però torniamo a studiare che altrimenti mi prende male” “Hai ragione”
Sua madre mi chiese se volevo prendere delle cose e io, dopo due mesi, decisi che ero pronta per vedere la camera di Thomas. Dopo aver dato la maturità con quasi ottimi voti decisi che per chiudere con un finale decente sarei dovuta andare a casa sua. Fu un esperienza terribilmente bella. Aveva una libreria gigantesca, e la sua vera casa non era quella dove mi aveva invitato. Il suo comodino era pieno di medicine, ma sepolto fra i vari tubetti e scatole giaceva “New Moon”. Lo aprii e scoprii che era sottolineato e vi erano appunti del tipo “comprare camicia grigia” a lato: lo aveva studiato, aveva ricreato alla perfezione le situazioni per farmi sentire a mio agio, mi aveva fatta vivere in un libro per quanto aveva potuto. Mi scesero altre lacrime e macchiai la copertina. C’era un segnalibro, anzi no, era una lettera. La lettera. Mi tremavano le mani mentre leggevo, nel ricordo delle sue, bianche e forti che mi sfioravano il collo dopo aver spostato i capelli in maniera dolce ed elegante.
Carissima Beatrice,
in questo momento mi starai odiando perché me ne sono andato. Non dipende da me, ti prego di comprendere che ci sono talvolta ragioni e forze vampire più forti dell’amore che, ovviamente, non smetterò mai di provare per te. Ti prego di non disperare ed andare avanti senza di me come hai sempre fatto. Ti ringrazio perché in questi mesi ho vissuto veramente per la prima volta, ma adesso i vari clan sono in guerra e io devo di nuovo andar via. Sappi che comunque sia il tuo vampiro preferito sarà sempre con te, ogni notte e ogni mattina, in ogni sogno, in ogni compito in classe. Affronta tutto ciò che seguirà questa lettera come lo farebbe una eroina di un romanzo e sappi che se ho mentito mai, allora l’ho fatto per proteggerti. Non ti preoccupare per me, starò bene, credo, non sarò solo e la mia anima potrà sempre confortarsi con il tuo ricordo. Sono dannato, tu no. Forse ti rivedrò in un qualche Purgatorio e sarai la mia guida e io il tuo Dante. Non mi biasimare troppo per non averti trasformata, l’eternità è meglio lasciarla ai libri.
Ti amo,
“Ci rivedremo” esclamai “ci ritroveremo e sapremo riconoscerci, sotto qualsiasi sembianza. Me ne vado”
(Goethe, I dolori del giovane Werther)
“Dimenticata? Tu sei parte della mia esistenza, parte di me stesso. Sei stata in ogni parola che ho letto”
(Dickens, Grandi Speranze)
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Alice Rugai è una giovane scrittrice fallita della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Pisa. Grafomane da sempre, ha pubblicato Romanticite con la casa editrice Aletti. Responsabile della sezione Arte e Cultura del quotidiano di moda online MIME, adesso è alla disperata ricerca delle parole giuste, se mai ce ne sono, in prosa. Appassionata di letteratura e di arti in genere, scaricatrice pirata compulsiva di film mezzi sconosciuti e period drama della BBC, spera di poter fuggire presto in erasmus nella patria dei teinomani. Come ogni Alice che si rispetti passa, ma non perde, la maggior parte del tempo fantasticando curiouser and curiouser. Convinta che recitare sia sinonimo di vivere, si intrufola nei palcoscenici da più di dieci anni e non sembra intenzionata a smettere.
Fracesca Croci, soprannominata Skellington per ovvie passioni, attualmente si dedica alla Grafica D’arte all’Accademia di Belle Arti di Carrara, è appassionata di cinema ed arte, di ogni tipo, i suoi miti sono Kafka, Bosch e Giger. Il suo principale difetto è la sua nevrosi e la sua compulsività; non si separa mai da penna e fogli.
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