19 Marzo 2024

Alla luce dei recenti avvenimenti in Afghanistan è importante comprendere in sintesi la storia recente di questo paese e delle varie etnie che lo compongono, per poi giungere alla cronaca attuale e ad ulteriori valutazioni. Il fine è quello di capire gli errori dell’occidente, dal colonialismo fino ai giorni nostri, e i possibili scenari futuri, tenendo ben presente una domanda: è possibile “esportare la democrazia” in Afghanistan?

 

Quando l’Afghanistan nel 1919 riuscì ad ottenere una (parziale) indipendenza dall’Impero Britannico, che per quasi un secolo ne aveva fatto il suo “gioiello coloniale” al fine di bloccare l’espansionismo russo e sfruttare le sue risorse, il paese, nonostante un susseguirsi di golpe, colpi di stato e omicidi dei vari leader arrivati al potere, conobbe una fase di modernizzazione e civilizzazione che passò da una turbolenta monarchia, ad un breve governo repubblicano, fino ad un altro di matrice marxista-leninista. Nel 1978-1979 l’Afghanistan conobbe  un notevole sviluppo nelle libertà, nei costumi, nell’economia ma soprattutto nei diritti sociali. Tutto questo finì nel settembre del 1979 quando il vicepresidente uccise il presidente, prendendo il potere e facendo adirare l’Unione Sovietica, che lo sospettava di legami con la CIA. La naturale conseguenza fu l’invasione dell’Unione Sovietica con dieci lunghi anni di occupazione, fatti di una cruenta guerra contro i Mujaheddin finanziati dagli Stati Uniti, al fine di contenere l’espansionismo sovietico in una zona strategica.

All’indomani dell’invasione sovietica, l’Afghanistan era un paese instabile, disseminato di mine, e di gruppi etnici in guerra tra loro. Così, dichiarata la fine della Repubblica Afghana, dal 1992 iniziò una sanguinosa guerra civile che culminò nel 1996 con la presa del potere da parte di una fazione dei Mujaheddin nota come talebani, e guidati da mullā Muhammad ‘Omar (morto nel 2013 di tubercolosi). Emblematica fu la fine dell’ultimo presidente della Repubblica Afghana, Mohammad Najibullah, meglio noto come “il macellaio di Kabul” per aver ucciso a sangue freddo centinaia di Mujaheddin, il quale venne catturato nel palazzo dell’ONU a Kabul dai talebani, evirato, trascinato in una jeep per il paese, finito con un colpo alla testa e poi appeso a testa in giù assieme al fratello, a cui toccò la stessa sorte. Era appena iniziato l’Emirato islamico dell’Afghanistan sotto la guida dei talebani.


 

La questione etnica

Per provare a capire meglio l’Afghanistan bisogna aver presente principalmente due cose, di cui in primis le varie etnie che compongono il paese:

  • Pashtun: 36% (42%-70%)
  • Tagiki: 27%
  • Hazara: 15%
  • Uzbechi: 9%
  • Aimak: 4%
  • Turkmeni: 3%
  • Baluchi: 2%
  • Altri: 4% (tra cui nomadi Kuchi).

(Fonte: stime della Library of Congress degli Stati Uniti)

Le prime due etnie, cioè Pashtun e Tagiki, sono di religione islamica sunnita, gli Hazara, terzi per numeri, sono di religione musulmana sciita. I Pashtun, etnia più diffusa del paese, hanno sempre vissuto nel Pashtunistan, territorio tra Pakistan e Afghanistan sud-orientale che durante il colonialismo britannico fu divisa in due dalla Linea Durand, originando l’attuale separazione tra Afghanistan e Pakistan. L’etnia Pashtun, da sempre in prima linea contro l’impero britannico e contro l’Unione Sovietica è la principale componente etnica dei Talebani, che durante la guerra civile hanno prevalso non solo sugli Hazara, ma anche sui Tagiki e gli Uzbechi. Gli Hazara, di lingua persiana e religione islamica sciita, sono perseguitati dalle etnie maggioritarie e sunnite fin dal 1700, chi ha letto il best-seller di Khaled Hosseini “Il cacciatore di aquiloni”, si ricorderà la struggente amicizia tra i due protagonisti appartenenti alle due etnie in perenne conflitto tra loro.

 

I Talebani

Il secondo elemento da tener presente sono i Talebani, che, ispirati al fondamentalismo sunnita Deobandi che unisce la Shari’a e il Pashtunwali, sono un gruppo armato emerso tra i Mujaheddin come forza in grado di sconfiggere l’Unione Sovietica e riportare la pace nel devastato Afghanistan. Il loro impegno e la loro fama nel paese si diffuse grazie all’eliminazione dei Signori della Guerra, che controllavano la maggioranza delle zone con la forza, grazie a eserciti spietati di fedelissimi ben pagati. Famoso è l’episodio del 1994, quando ad un posto di blocco di un signore della guerra vicino a Kahdahar, vennero rapite e stuprate due bambine, il mullā Muhammad ‘Omar armò trenta talebani che salvarono le ragazze, sequestrarono le armi all’esercito del signore della guerra e lo impiccarono. Da allora la protezione dei Talebani, considerati dal popolo come combattenti di una certa moralità islamica, venne richiesta da chi veniva vessato dai signori della guerra, soprattutto dai contadini. La fama dei Talebani dunque divenne sempre di più quella dei combattenti a favore della povera gente e contro le oppressioni straniere e delle minoranze etniche.

Dopo una guerra civile fatta di una lenta avanzata paese per paese, quando i Talebani presero il potere a Kabul applicarono il loro pensiero religioso e politico, i cui punti centrali sono la solidarietà, l’austerità e la famiglia, gestita ovviamente dagli uomini. Questo comportò un’applicazione della Shari’a, con l’imposizione di punizioni corporali e pena di morte per molti reati o comportamenti non moralmente consoni alla loro corrente religiosa: ne sono esempi la mutilazione per i furti o la lapidazione per l’adulterio conclamato. In poco tempo vennero bandite la televisione, il cinema, gli spettacoli, la danza e la musica, considerate diretta espressione di Satana, furono proibite le raffigurazioni femminili, e in effetti quella che toccò alle donne fu la sorte peggiore. Le donne furono costrette a vestire il burqa integrale, a non uscire di casa senza essere accompagnate dagli uomini, a non poter ridere in presenza d altri uomini, ai matrimoni combinati, nessuna donna poteva studiare, lavorare, e la società divenne fortemente patriarcale, in quanto un marito o un padre avevano diritto di vita o morte sulle “proprie” donne. I talebani poi provarono un profondo disprezzo per l’arte sacra non islamica, considerata come forma di idolatria, di questo un famoso esempio fu la distruzione con cariche di esplosivo dei Buddha di Bamiyan, uno dei siti Unesco più importanti.

I Talebani durante il loro regime hanno formalmente contrastato la coltivazione di oppio, la vera miniera d’oro dell”Afghanistan, e in effetti sono riusciti a diminuirla, anche in virtù della loro etica religiosa. Tuttavia ad oggi risulta, da numerosi studi e stime, che la metà degli introiti dei talebani derivi proprio dal narcotraffico, fenomeno che tra l’altro gli stessi americani durante la loro permanenza nel paese non sono riusciti ad arrestare. Quello dell’oppio afghano resta oggi un nodo centrale nella geopolitica,  così come nei rapporti di forza e nella corsa agli armamenti, visto che gli ingenti guadagni consentono a chi ne gestisce il traffico un cospicuo vantaggio in termini economici sul resto della popolazione afghana.


 

Osama Bin Laden, gli attentati del 9 settembre 2001, e la Guerra in Afghanistan

Nel 1996 Osama Bin Laden, un ricco ereditiere saudita, si trasferì in Afghanistan e stipulando un accordo con i Talebani fece del paese un vero e proprio centro di addestramento per la sua organizzazione terroristica Al-Qaeda. L’11 settembre del 2001, data tristemente cucita nelle memorie di tutto il mondo, quattro aerei di linea americani furono dirottati da terroristi di Al-Qaeda contro obiettivi strategici americani. Due colpirono le torri gemelle di New York, causando 2.606 vittime civili, un altro finì contro il Pentagono, causando 125 morti, un ultimo si schiantò al suolo prima di arrivare a Washington, grazie al coraggio dell’equipaggio che insorse contro gli attentatori, rimasero uccise 44 persone.

All’indomani dei sanguinosi attentati dell’11 settembre, sotto forte pressione dall’opinione pubblica americana e internazionale, il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush chiese ai Talebani di collaborare al fine di catturare e processare Osama Bin Laden per gli attentati. Il 20 settembre, alla scadenza della sua richiesta, seguita da una serie di vessazioni da parte dei talebani, gli USA diedero il via all’operazione Enduring Freedom, che violando il diritto internazionale riunì una coalizione internazionale di paesi aderenti alla NATO, tra cui soprattutto Gran Bretagna e Italia. Il fine conclamato di questa operazione doveva essere distruggere Al-Qaeda, ma in effetti il regime dei talebani venne rovesciato nel novembre 2001, in appena un mese fatto di  bombardamenti (americani e britannici) e operazioni di terra. Quelli che seguirono furono anni di attentati in occidente, come quello della metropolitana di Londra, e il ritiro di Al-Qaeda presso le montagne afghane e poi in Pakistan.

A quel punto, vista l’instabilità politica l’International Security Assistance Force (ISAF), la forza internazionale di stabilizzazione dell’Afghanistan, fu autorizzata ad agire dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2001. Nell’ottobre 2006 l’ISAF contava un personale di circa 32.000 uomini provenienti da 34 nazioni, e restò nel paese al fine di instaurare un governo democratico e addestrare l’esercito afghano, con la famosa logica dell’esportazione dei diritti e della democrazia tanto cara agli Stati Uniti dagli anni ’90 ad oggi. Poco prima, nel 2004 ci furono le prime elezioni, vinte da Hamid Karzai. Non solo, perché progressivamente la coalizione riuscì nell’obiettivo di sradicare Al-Qaeda, e in effetti nel 2011 venne ucciso dagli americani anche Osama Bin Laden, rifugiatosi in Pakistan nei pressi di Peshawar.

Una volta caduto il regime talebano, i miliziani non sono spariti dal paese, ma si sono ritirati nel sud, in Pakistan, e durante questi anni hanno continuato a rafforzarsi reclutando nuovi soldati, colpendo il governo filo-occidentale con numerosi ed imprevedibili attentati, che hanno seminato il terrore in tutto il paese. La loro profonda conoscenza del territorio e il favore di cui godevano presso buona parte della popolazione, hanno favorito l’imprevedibilità dei loro attacchi, per lo più attentati mirati. Di fatto nel corso dei vent’anni del conflitto afghano, sono circa tremila i militari occidentali morti tra numerose operazioni, tra cui 54 italiani, molti di più sono i morti afghani, soprattutto tra i civili, che ammonterebbero secondo stime a tra i 140.000 e  i 340.000, a fronte delle circa 68.000 perdite tra gli insorti. Molto esose sono state anche le spese militari, che come ricordava Gino Strada nel suo ultimo articolo su La Stampa, ammontano da parte americana a circa 822 miliardi di dollari nel corso degli ultimi 20 anni. La  coalizione internazionale a guida americana ha dotato gli afghani di un governo democratico, di aerei, mezzi e di un esercito addestrato per combattere i talebani, poi qualcosa è cambiato negli Stati Uniti. In effetti proprio durante l’ultima presidenza di Barack Obama con l’uccisione di Bin Laden, e soprattutto durante quella di Donald Trump, sempre di più l’opinione pubblica americana ha iniziato a schierarsi apertamente verso il ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan. Così il 29 febbraio del 2020, a Doha capitale del Qatar, è stato firmato uno storico accordo tra i Talebani e il Presidente americano Donald Trump, accordo molto criticato perché ha tagliato fuori dalle trattative il governo di Kabul. Della parte pubblica dell’accordo è stata resa nota la volontà di far ritirare dal paese 3.400 soldati americani.

 

Il ritiro americano, la presa di Kabul e l’esodo

Succeduto Joe Biden a Donald  Trump, il Presidente americano ha insistito nel tener fede all’accordo di Doha, e ha ritardato il ritiro delle truppe da marzo 2021 a maggio 2021. Quando le truppe americane hanno iniziato a ritirarsi, i talebani hanno cominciato ad avanzare verso Kabul, ma il Presidente Biden ha continuato a sostenere che l’esercito afghano avrebbe tenuto fronte alle milizie talebane. La previsione di Biden si è rivelata errata (come suggeritogli dai generali americani), in quanto l’apparato statale afghano tagliato fuori dagli accordi di Doha, e l’esercito, facilmente corruttibile e privo dell’appoggio americano, sono passati subito dalla parte dei talebani o si sono dati alla fuga, come l’ex presidente dell’Afghanistan, vanificando in pochi mesi vent’anni di risorse e intervento militare, e dunque lasciando il campo al nuovo regime talebano.

L’esodo successivo è ormai cronaca: alla notizia dell’avanzata talebana verso Kabul conseguente al ritiro delle truppe americane, gli afghani che hanno collaborato con le ambasciate occidentali dal 14 e 15 agosto hanno iniziato ad affollare le stesse per richiedere visti e asilo politico, sapevano benissimo che i talebani li accuseranno di collaborazionismo e verranno a prenderli casa per casa tra torture, vessazioni e rappresaglie. Così l’aeroporto di Kabul si è riempito di profughi, che in balia alla disperazione hanno iniziato ad aggrapparsi agli aerei americani, precipitando nel vuoto da centinaia di metri, ripetendo le scene già tristemente note dei falling man dell’11 settembre. I talebani rispettando gli accordi hanno lasciato libero l’aeroporto di Kabul, assicurando, a chiunque voglia, la possibilità di lasciare il paese in pace, e di più: hanno anche assicurato che i diritti delle donne saranno rispettati e che non ci saranno rappresaglie sui civili. Ma a Kabul e in tutto il paese già vengono cancellati i poster  femminili, le donne si preparano a vestire di nuovo il burqa, e tutti nascondono libri nel mentre che le ambasciate vengono abbandonate e i documenti bruciati. Scene già viste a Saigon, o a Teheran, ma stavolta la paura in gran parte della popolazione è molto diffusa, e contrariamente a quanto annunciato dai talebani, le rappresaglie e le perquisizioni casa per casa sono già iniziate.

 

Un nuovo corso per la politica estera americana o nuovi interessi?

Nel pomeriggio del 16 agosto (sera da noi), il Presidente Joe Biden ha tenuto uno storico discorso rivolto agli americani per difendere la propria politica estera, che può essere riassunto come segue: aveva le mani legate per le scelte dei suoi predecessori; ritirare le truppe subito o tra qualche anno non avrebbe cambiato niente; porteremo via gli afghani che hanno collaborato con la nostra ambasciata e le loro famiglie; serve aiutare il popolo afghano con la diplomazia e gli aiuti internazionali; basta militari americani morti in Afghanistan; “sarò criticato ma preferisco prendermi io la responsabilità di questo piuttosto che lasciare la questione ad un quinto presidente”; “ho mantenuto le mie promesse elettorali”. Un discorso giudicato da molti  esperti di politica americana come onesto, difensivo, ed esclusivamente rivolto all’opinione pubblica americana che, come già detto, sosteneva fortemente il ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan.

A fronte di quanto successo potremo dire che questi avvenimenti e i successivi sviluppi rappresentano il fallimento della politica estera americana e NATO degli ultimi decenni, nonché di tutto ciò che è legato all’esportazione dei diritti e della democrazia con la guerra e l’occupazione militare. A margine di questo è interessante notare come i fatti recenti di Kabul abbiano risvegliato in tutto l’occidente una sorta di straziante rammarico per l’abbandono del popolo afghano da parte delle truppe occidentali, e un successivo mea culpa giunto trasversalmente da buona parte della classe politica occidentale, a cui è però susseguito uno scaricabarile sugli USA per questi ultimi vent’anni di guerra. Verrebbe da pensare alle solite lacrime di coccodrillo, ma la verità è che ad oggi è difficile ricordarsi del sentimento che nel 2001 dominava l’occidente nei confronti di Al-Qaeda e dei “terribili talebani”, ancor più difficile però è saper distinguere tra i fini per cui si combattono le guerre e si “esportano i diritti”, quasi sempre a causa di determinati interessi economici e geopolitici, che nel caso dell’Afghanistan del 2001 è difficile scindere dalla sete di giustizia contro gli attentatori del World Trade Center.

Ecco allora sorge una domanda: a cosa stiamo assistendo oggi con questo ritiro americano? Rispondere è difficile: che questo sia un nuovo corso per la politica estera americana? Che forse a Washington sia stato deciso, come sostiene Biden, che non è più opportuno esportare la democrazia con l’esercito ed ingenti spese economiche a fondo perso, e che forse può essere più opportuno farlo con aiuti economici e diplomazia? Che il ritiro sia il frutto di un mero calcolo elettorale, visto che secondo gli ultimi sondaggi circa il 70% degli elettori americani voleva il ritiro dall’Afghanistan? O magari l’abbandono dell’Afghanistan serve a lasciare un’area altamente instabile al confine con la Cina e vicina alla zona di influenza russa? Quel che è certo è che la diplomazia di Pechino si è subito mossa nel riconoscimento dei Talebani, però va detto francamente e mettendo le mani avanti, che in effetti per avere il quadro completo sulle reali intenzioni statunitensi ci sono molte cose che dovremmo avere più chiare, ad esempio la totalità delle clausole degli accordi di Doha.

 

Quale futuro per l’Afghanistan?

Ad ogni modo eccoci arrivati al giorno della ritirata, al giorno dell’esodo, in cui l’Afghanistan che avrebbe dovuto funzionare da sé dopo anni di formazione e “investimento in libertà” è invece scivolato indietro di vent’anni, di nuovo nelle mani dei talebani, e in meno tempo del previsto. In queste ore concitate è difficile immaginare un futuro roseo per coloro che rimangono nel paese sotto il dominio talebano, e qui il pensiero va soprattutto alle donne, a quelle che hanno studiato, che lavoravano, certe volte mantenendo da sole la famiglia, come molte donne medico che lavoravano nell’ospedale Emergency di Kabul, e che sanno già che tra poco saranno disoccupate, recluse, o ancor più: tacciate di collaborazionismo e dunque prese di mira dalle milizie talebane. Il loro esercito si è arreso, o forse non ha mai nemmeno voluto combattere, hanno preso i soldi dell’occidente finché hanno potuto, ma una volta chiuso il rubinetto dei fondi sono passati ai migliori offerenti – i talebani -, abbandonando il paese al suo inevitabile destino. I più giovani afghani non hanno mai conosciuto il regime talebano, hanno avuto anzi la possibilità di studiare, di avere dei costumi diversi da quelli imposti, di apprezzare il valore della parziale libertà di cui hanno beneficiato durante l’occupazione, dimenticandosi cosa voglia dire vivere da profughi, o in schiavitù sotto un regime teocratico e fortemente patriarcale, seppur restando in questi anni un paese perennemente in guerra e in costante allerta da attentati.

Per noi occidentali è assurdo pensare che possa esistere un paese in cui si affrontano simili condizioni politiche e umanitarie al giorno d’oggi, e proprio riguardo alla questione dei diritti ci viene facile immaginare che i talebani non siano così ben voluti dalla popolazione. Questo non è però del tutto vero, perché riguardo l’Afghanistan bisogna sempre distinguere tra le varie etnie, di cui i Pashtun sono tuttora maggioranza, il grado di istruzione, l’età e altri parametri sociografici che creano una situazione politica molto frammentata. Non è vero che gli afghani vogliono i talebani, come non è vero il contrario, la situazione etnica, religiosa e politica è molto più complessa e instabile. E qui la strada si apre ad un’ulteriore riflessione che riguarda i diritti e la democrazia. Questi avvenimenti ci hanno insegnato che la democrazia e i valori occidentali non possono essere esportati, e che il principio dell’autodeterminazione dei popoli è ben più importante di quanto abbiamo pensato in passato. Anni di colonialismo, successive occupazioni e influenze geopolitiche hanno sicuramente contribuito a destabilizzare ancora di più queste zone (come per Israele e la Palestina) e a far crescere un odio nei confronti dell’occidente che ha poi portato anche agli attentati dell’11 settembre e a quello che ne è seguito, a questo bisogna aggiungere che entrare in un paese avendo la pretesa di insegnare la nostra etica e i nostri valori non è mai un’operazione felice, perché gran parte degli afghani ci ha sempre visto come degli usurpatori.

E allora a livello pratico cosa possiamo fare per “civilizzare” l’Afghanistan? La verità è che non possiamo fare niente, qualsiasi nostro ulteriore intervento militare contribuirebbe a destabilizzare ancora di più una regione già altamente instabile, e lo abbiamo visto con il ritiro delle truppe dopo vent’anni di “addestramento alla democrazia”. Per quanto riguarda la strada della diplomazia e degli aiuti economici ci sono diverse possibilità da seguire, strade anche discutibili, come quelle percorse dalla Cina in molte ex-colonie europee, ma ad ogni modo se avverrà mai un rovesciamento del regime talebano o un suo cambiamento non potrà essere con nuovi aiuti militari esterni, e non senza che prima il popolo afghano acquisisca una propria autocoscienza che superi le differenze etniche e religiose, sotto il prezzo di anni di sangue e repressione.

Nel frattempo ci prepariamo già ad una crisi umanitaria dai risvolti difficili da prevedere, ma da parte europea sarebbe tanto auspicabile quanto necessaria l’apertura di corridoi umanitari per accogliere i rifugiati politici e i profughi afghani, magari ripartendoli in quote tra i vari paesi dell’Unione. È il prezzo minimo che dobbiamo pagare se davvero abbiamo a cuore la libertà e la vita del popolo afghano. Altrimenti anche queste finiranno per essere parole nobili di cui ci riempiamo la bocca per mascherare altri fini con cui giustifichiamo le guerre che abbiamo iniziato e che non siamo stati in grado di finire.

 

 

 

 

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