28 Marzo 2024

Spesso capita di pensare che a Livorno ci sia una mancanza di interesse e sensibilità per la cultura e per l’arte in tutte le sue varie componenti, con la conseguenza di una insufficiente fioritura culturale in termini di iniziative, progetti e simili. Non si potrebbe certo contestare che questi siano dei campi che non godono di particolare sostegno, appoggio e sensibilizzazione (d’altronde è una lacuna che colpisce non solo la città di Livorno). Ma in realtà se si indagasse un po’ più a fondo rispetto alla piattezza dell’apparente e del quotidiano e si avesse il minimo impulso a scuoterci dalla vacuità e dalla comoda e omologante normalità, verrebbe fuori una proliferazione di realtà cittadine in grado di offrire una parola e uno sguardo nuovi e originali: un modo di acquisire una maggiore conoscenza di noi stessi, degli altri e del mondo che ci circonda. La vera ricchezza che giace nel sottosuolo.

Tra queste ricchezze c’è una realtà, l’associazione Circolo del Cinema Kinoglaz, radicatosi in uno degli spazi artistici più rappresentativi della città, come Il Centro artistico Il Grattacielo. L’obiettivo che essa si pone è quella di promuovere in città l’arte e la cultura del cinema: non quello di massa e di consumo delle grandi produzioni, bensì quel cinema relegato ai margini della distribuzione ufficiale di prima visione. Un modo per prestare particolare attenzione a quei film nazionali o internazionali che si sono distinti per qualità e interesse durante i Festival cinematografici. Nato nel 1992 e costituitosi come associazione nel 1996, il Circolo Kinoglaz ha annualmente organizzato delle rassegne cinematografiche, grazie all’impegno e alla cura di Marco Bruciati, per proporre un nuovo modo e spazio di aggregazione, mediante un percorso di condivisione e analisi del reale che dia una parola nuova e porti alla luce tutto ciò che spesso rimane invisibile agli occhi dei più.


Una parola e uno sguardo nuovi. Immagini e persone che hanno una storia da raccontare, un impegno culturale o civile da condividere, un problema sociale o interculturale da porre. Tutte storie, questioni e problemi che nel groviglio dei giorni d’oggi, dove l’attenzione si sposta sulle cose più inutili, si perdono e rischiano di non avere qualcuno che li ascolti. Non a caso la rassegna di quest’anno, prevista da marzo a maggio, si chiama “Sguardi perduti”. Un programma che include per lo più film del genere documentario, che danno spazio a parole e immagini su vicende e casi dibattuti e controversi: da Piergiorgio Welby alla terra dei fuochi ai No Tav della Val di Susa. Uno sguardo, “perduto”, anche sulla cinematografia degli anni ’60, con un film documentario su Alfredo Bini, il livornese “ospite inatteso” che ha fatto la storia della produzione cinematografica, facendo esordire Pier Paolo Pasolini con Accattone nel ’61 e producendo tutti i suoi film fino a Edipo re del ’67. Ed è proprio sulla figura di Pasolini che si incentra parte della rassegna, proiettando due suoi film: Teorema del ’68 e Medea del ’69.

La Medea di Pasolini, la cui proiezione è stata introdotta da un interessante progetto messo in atto da ragazzi studenti della Scuola Superiore, tra danza, ricerche, studi e contestualizzazioni sul film che i ragazzi hanno condiviso al pubblico, rappresenta il limite dello sperimentalismo cinematografico attuato dal regista e letterato bolognese, che voleva con questo film allontanarsi da ogni convenzionalità del cinema. In realtà più che raccontare una
storia, Pasolini vuole con questo film reinterpretare il mito in chiave fortemente ideologica: la tragica eroina
euripidea viene vista come protagonista e vittima dell’incontro-scontro tra società e culture diverse. Mentre ella rappresenta la civiltà dell’innocenza e della sacralità barbarica, il suo amato Giasone riprende gli aspetti di una società borghese e capitalista, crudele e senza valori. L’universo di Medea, interpretata dalla magnifica presenza di Maria Callas, è caratterizzato dalla ferocia di costumi primitivi e dall’ignoranza, ma è anche capace di esprimere dei valori su cui far leva per un’evoluzione e un riscatto. Viceversa la società laica e tecnocratica incarnata da Giasone (nei cui panni è Giuseppe Gentile, campione olimpionico di atletica) genera alienazione e ansia distruttiva. Quando lei, allontanatasi dalla Colchide, giunge nella nuova terra, a Corinto, si sente subito perduta, senza più le sue radici e il suo retroterra magico. L’episodio decisivo per Medea, quello che la fa tornare alle origini del suo essere, è l’abbandono e il tradimento di Giasone: egli ha chiesto la mano di Glauce, figlia del re Creonte. In questo modo, regredendo alla sua antica cultura, alla sua fede, alla sua infanzia, Medea organizza una terribile vendetta, inducendo con i suoi poteri di maga al suicidio Glauce e Creonte e uccidendo a uno a uno i tre figli avuti da Giasone. In questo modo si afferma una diversità inconciliabile: la forza e la magia attinte dal passato contro il laico dolore del presente con cui fa i conti Giasone. Uno scontro tra due mondi antitetici dimostrato anche dal fatto che tra loro c’è assoluta mancanza, impossibilità di parlare e capirsi; nel corso di tutto il film, infatti, non vi è un solo dialogo tra Medea e Giasone, eccetto che nel finale, quando tentano un estremo riavvicinamento, anche se ciò è ormai impossibile. Con i colori, il silenzio immoto e il paesaggio arcaico della Colchide, nonchè con l’impressionante figura di Medea, Pasolini vuole rappresentare un Terzo Mondo che vede impossibilitata ogni spinta innovatrice nel catastrofico incontro con la modernità e la civiltà occidentale.

Un film complesso, ma culturalmente vitale, vivo; così come lo è il cinema a Livorno: è un’esperienza che può ancora stupire e incuriosire, anche quando è lontano dal consumo, dalla notorietà e dalle riviste patinate. E anche quando è lontano nel tempo. E’ un modo questo per non morire, per continuare a vivere: sta allo spettatore livornese decidere se far vivere qualcosa di diverso e originale o se gettarlo nell’oblio.

 

 

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