27 Aprile 2024

Dante Alighieri, ipocoristico universalmente noto di Durante di Alighiero degli Alighieri, rappresenta una delle figure maggiormente complesse e dibattute della storia dell’umanità, al punto che gli studi in materia, a distanza di ben sette secoli dalla morte del Sommo Poeta, continuano a non essere concordi su molteplici aspetti, legati tanto ai significati più reconditi della florida produzione letteraria di quest’ultimo quanto alla vita personale del medesimo, pur essendo inevitabilmente pacifici su un punto, rectius, su un assioma, ossia la sua centralità granitica, per non dire monumentale, nell’evoluzione della civiltà italiana, a partire dalla lingua.

In verità, tentare di analizzare il profilo di Dante per compartimenti stagni sarebbe un’impresa vana, oltre che fortemente riduttiva; egli, infatti, non è stato solo un poeta, un saggista, un critico e un filosofo, ma anche un soldato, un politico e un profetico analista, nonché tutte queste cose insieme, compenetrate tra loro come cerchi concentrici o come rami dello stesso grande albero. Del resto, perfino nelle interpretazioni più superficiali della sua opera maggiormente nota, solitamente oggetto delle lezioni impartite agli alunni delle scuole medie, vengono menzionati riferimenti espliciti alle posizioni politiche dell’Autore, mai nascoste e, anzi, orgogliosamente sfoggiate dallo stesso, seppur nella rigorosa cornice letteraria e metrica della Commedia. In un certo senso, a ben vedere, la statura impareggiabile del Dante poeta ha finito con l’adombrare, paradossalmente, quantomeno a livello didattico, l’importanza e il fascino del Dante uomo politico, figura che, come premesso, non può e non deve essere analizzata come avulsa dalla prima, essendone, al contrario, parte integrante.


Innanzitutto, è necessario tratteggiare i contorni del contesto in cui Dante mosse i suoi primi passi nell’agone politico, cioè la Firenze di fine XIII secolo. In seguito alla definitiva cacciata dei ghibellini, termine omnicomprensivo delle numerose famiglie nobili italiane che, per ideologia o, più spesso, per interesse e per clientelismo, parteggiavano per l’Imperatore, nell’ambito della contrapposizione plurisecolare tra quest’ultimo e il Papa, la futura capitale del Rinascimento si ritrovò egemonizzata dalla fazione dei guelfi, ossia coloro che, nel contrasto di cui sopra, sostenevano il papato. Nell’ultimo decennio del 1200, dunque, un Dante non ancora trentenne, che aveva contribuito personalmente alla sconfitta dei ghibellini, partecipando, in qualità di feditore (cavaliere), alla vittoriosa battaglia di Campaldino del 1289, ricoprì, dopo essersi iscritto all’Arte dei Medici e Speziali, svariati incarichi pubblici, su tutti quello di membro del Consiglio dei Cento, ove sedette, per oltre sei mesi, nel 1296, per poi divenire, nel 1300, priore della città. Proprio in quegli anni, tuttavia, la situazione politica di Firenze, nonostante l’apparente pax guelfa, andava sempre più degenerando, a causa dei contrasti, prettamente economici e d’immagine, ma poi rivestiti, come è sempre accaduto nella storia, da una sovrastruttura ideologica, tra le famiglie nobiliari dei Donati e dei Cerchi, che si ersero a guide di due nuove fazioni, rispettivamente i guelfi neri e i guelfi bianchi; i primi, in particolare, erano i portabandiera dell’ingerenza del Papa, all’epoca Bonifacio VIII, nella vita politica di Firenze, laddove i bianchi, al contrario, moderatamente favorevoli alle classi più popolari, spingevano per una maggiore autonomia della città rispetto a Roma. Com’era ovvio per una personalità di spicco come la sua, anche Dante prese posizione, ma lo fece alla propria maniera, cioè in modo del tutto peculiare e impossibile da catalogare con criteri manichei. Egli, infatti, pur essendo guelfo, guardava con sdegno alla crescente decadenza morale della Chiesa, che identificava paradigmaticamente, peraltro, nella figura dello stesso Bonifacio VIII; inoltre, nel suo pensiero, erano radicate addirittura idee tipiche degli antichi rivali ghibellini, soprattutto la concezione dell’Impero come massima autorità temporale del mondo, da tenere rigidamente separata rispetto alla sua omologa spirituale, cioè la Chiesa, in ossequio a quella “Teoria dei due Soli” che il Poeta avrebbe, in seguito, abbracciato, non solo nella Commedia, ma anche nel De Monarchia, soprattutto nell’ultimo decennio della propria vita. Già da questa complessità e, se vogliamo, originalità ideologica, è possibile cogliere almeno un frammento della genialità di Dante, il quale, seppur in base ai canoni cui poteva far riferimento un intellettuale del XIII secolo, aveva inquadrato, con due secoli di anticipo, almeno il germe, il seme primigenio della crisi etica che avrebbe portato all’ultimo, grande scisma della storia della Chiesa, ossia la Riforma Protestante, nonché al susseguente corollario delle Guerre di Religione.

Durante il suo bimestre da priore, comunque, l’Alighieri tentò, per quanto possibile, da un lato di mitigare la crescente influenza che Bonifacio VIII, tramite il proprio emissario Matteo D’Acquasparta, stava esercitando su Firenze, spalleggiato dai neri, e, dall’altro, di mediare tra questi ultimi e i bianchi, al fine di temperare la tensione tra le due fazioni, che era già sfociata più volte in fatti di sangue. Fu proprio in tale prospettiva che Dante approvò, insieme al resto del collegio di cui faceva parte, l’emanazione di un provvedimento di esilio a carico di numerosi esponenti di entrambi i “partiti”, tra i quali spiccava un suo amico intimo, il guelfo bianco e poeta Guido Cavalcanti. Tuttavia, la mossa si ritorse contro di lui, in quanto gli alienò le simpatie degli altri bianchi, oltre ad acuire il preesistente astio che i neri covavano nei suoi confronti. In seguito, i priori che gli succedettero revocarono immediatamente l’ordine di esilio a carico dei bianchi, fornendo agli uomini di Bonifacio VIII un pretesto perfetto per rafforzare la propria presa su Firenze, che si spinse a un punto tale da indurre i vertici politici cittadini ad inviare, nel 1301, un’ambasceria a Roma, della quale faceva parte anche il Poeta. Mentre quest’ultimo si trovava nell’Urbe, tuttavia, Carlo di Valois, il nuovo plenipotenziario del Papa a Firenze, assunse con la forza il controllo della città e vi instaurò un altro regime, ovviamente composto da guelfi neri e favorevole al Pontefice; nei primi mesi del 1302, infine, sulla scorta di numerosi altri provvedimenti similari, il neonato governo emanò un ordine di esilio perpetuo nei confronti di Dante, la cui trasgressione sarebbe stata punita con il rogo.

Dopo un biennio trascorso infaticabilmente a ricompattare le file degli altri esuli e a tentare di riprendere il controllo di Firenze, addirittura con l’appoggio dei ghibellini di Forlì, il Poeta, una volta assodato che la via della forza non fosse praticabile, si rassegnò, con la morte nel cuore, all’idea di non fare più ritorno alla propria città natia, lontano dalla quale, infine, si sarebbe spento nel settembre del 1321, senza mai aver davvero elaborato il trauma derivante da tale distacco. Negli oltre vent’anni di esilio, tuttavia, Dante non abbandonò la propria passione politica, la quale, anzi, trovò una nuova verve nel 1310, anno in cui l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo discese in Italia alla testa del suo esercito, venendo accolto dal tripudio non solo dei ghibellini della penisola, ma anche degli esuli bianchi fiorentini, in primis lo stesso Poeta, il quale riuscì perfino a incontrare privatamente il sovrano. Tuttavia, le speranze che l’Alighieri riponeva in una restaurazione dei guelfi bianchi a Firenze e nella fine dell’anarchia politica italiana, contro la quale si era scagliato con veemenza nella Commedia, con i celeberrimi versi del PurgatorioAhi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”, furono vanificate definitivamente dalla morte di Enrico, avvenuta a Buonconvento nel 1313.

In generale, come accennato, l’intera produzione letteraria di Dante è permeata da un forte impegno ideologico, che ne caratterizza la poetica almeno quanto lo stile e la metrica.

Senza scomodare il De Monarchia, di fatto il manifesto politico del Sommo Poeta, riferimenti alle sue posizioni si riscontrano anche nell’opera più famosa che ci ha tramandato, ossia la monumentale Commedia.

Oltre ai già citati versi dedicati all’anarchia della penisola nel XIV secolo, è impossibile non menzionare il dialogo, avente ad oggetto le lotte intestine di Firenze, che Dante intrattiene nell’Inferno con Ciacco, per non parlare di quello con Giustiniano, nel Paradiso, invero un raffinato espediente per descrivere la concezione dantesca dell’Impero come autorità universale e come punto di riferimento per la dimensione materiale e terrestre del mondo, nonché come unica entità capace di superare ogni lotta fratricida tra concittadini e compatrioti e di garantire la pace e l’armonia fra gli uomini. Come è facilmente intuibile, in conclusione, il Dante uomo politico è stato una figura complessa almeno quanto il Dante letterato e intellettuale, poiché, in una prospettiva sincretica, ha fatto riferimento a tematiche e a principi avanguardistici e, allo stesso tempo, nostalgici, senza mai perdere di vista la propria esperienza personale di esule innamorato della propria patria e, proprio per questo, estremamente critico nei suoi confronti.


In un’epoca decadente in cui l’ignoranza è divenuta scienza e in cui la cialtroneria è assurta prima a dottrina politica e, in seguito, a sistema di potere, è forse ingenuo, ma parimenti doveroso, auspicare che la figura di Dante Alighieri, così elevata, coerente, impegnata, visionaria e, soprattutto, critica, non sia più considerata solo come la mano che ha partorito versi da far imparare meccanicamente, previa opportuna decontestualizzazione, a generazioni di alunni svogliati e malamente stimolati, ma anche come esempio da seguire per rendere l’Italia di oggi, fin troppo simile a quella descritta con rabbia dal Poeta a Sordello, un posto migliore in cui vivere.

 

 

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