28 Aprile 2024

Per un’eredità misteriosa due ragazzi partono per un viaggio avventuroso. Ecco un’altra puntata della nostra rubrica settimanale “Storie brevi”, una raccolta di piccole storie con vari temi e stili, ma sempre brevi e dirette al lettore. Questa settimana ecco la terza parte del nostro racconto a puntate. Buona lettura!

Per leggere la puntata precedente cliccate qui.

 

A cura di Simone Bacci

 

La mattina successiva la tenda era circondata da una fitta nebbia, un po’ come Francesco che si sentiva sempre offuscato dall’apatia della sera prima. I due si alzarono di buon ora e la piegarono ancora umida dalla pioggia della notte, per riprendere il cammino prima che il sole diventasse troppo forte. Non riuscivano a vedere più lontano di qualche metro, così quando venne il momento di decidere se fidarsi delle indicazioni di Padre Gabriele o meno, a convincerli a proseguire a dritto fu la nebbia, che più avanti sembrava disperdersi in mezzo agli alberi. Tommaso accettò quella decisione con un po’ di riluttanza, ma d’altra parte l’apatia di Francesco lo rendeva così freddo da indurlo quasi all’autoritarismo. Marciarono per una mezzora, finché levatosi alto il sole, la nebbia non sparì via sotto i raggi della luce. Si fermarono, stesero la tenda di nuovo per farla asciugare, e tirando fuori la mappa cercarono di capire quanto distava il rifugio dalla loro posizione.


Arriviamo al rifugio così potremo chiedere indicazioni sul come arrivare in vetta, disse Tommaso.

Ma Francesco non era convinto di quella spedizione, in testa gli balenava la possibilità di lasciar perdere quel loro viaggio e tornare a casa a mani vuote. Fu la sua apatia che lo frenò dall’opporsi.

Proseguirono per diverse ore, finché non divenne palese che il percorso che stavano seguendo non era più un sentiero battuto, e al contrario non riuscivano a trovare punti di riferimento nella mappa che li facessero sentire sicuri che quello fosse il verso giusto. Si fermarono, e discussero animatamente su quanto avesse senso camminare da soli e senza telefoni in mezzo alla boscaglia sconosciuta. Francesco non era mai stato un incosciente, e nemmeno Tommaso, ma al contrario Tommaso pur di non ammettere un suo errore sarebbe andato in contro ad un treno in corsa, e forse quella mattina più che in ogni altro giorno della loro vita Francesco capì la stupidità della testardaggine, ma a posteriori.

Si fermarono a riposarsi vicino a una piccola fonte, dove riempirono le loro borracce: più che una fonte era un tubo nero da cui usciva dell’acqua, per poi rientrare in un tombino e ricongiungersi a una probabile tubatura sotterranea. Se c’era una fontana voleva dire che quel pezzo di strada faceva parte di un percorso, ma intorno a loro il silenzio era ben diverso da quello del Santuario, poiché fatto soltanto di canti uccelli e scricchiolii del terreno. Poi ad un tratto quello che inizialmente sembrava uno scricchiolio di un uccellino divenne sempre più forte e vicino, allora i due si prepararono a vedere un cinghiale o forse un cervo avvicinarsi. Erano pronti a tutto, persino a scappare, ma in quel momento rimasero immobili, in attesa della loro preda.

Ecco la fontana finalmente, disse una voce femminile in lontananza.

Una ragazza in tenuta da trekking si avvicinò lentamente: era atletica ma affaticata dal cammino e andava dritta verso di loro.


Ciao, scusaci, ti abbiamo scambiata per un animale, disse Tommaso ridendo.

Mentre riempiva la borraccia i due si presentarono, si chiamava Beatrice, aveva i capelli corti e uno zaino professionale. Era arrivata nel bosco partendo da un altro paesino e si era fermata a dormire anche lei in tenda.

Siete scalatori voi due? Chiese Beatrice.

No, stiamo cercando di raggiungere il rifugio.

Allora avete sbagliato strada, questo è il sentiero per la ferrata di Montagnone, è più lungo e difficile.

I due pensarono che sarebbe stato meglio lasciare il sentiero e tornare indietro.

Volete raggiungere la cima di Montagnone?

Sì, rispose Francesco recuperando determinazione.

Allora potete farlo lo stesso da qui, continuò lei. Non andremo al rifugio, la strada è più lunga e la scalata non sarà facile, ma ho le corde per altre tre persone e voi siete in due… Mi capita spesso di trovare altri viaggiatori con cui condividere una scalata, ma non vi illudete: se volete tornare indietro io sono una vera hiker e non me la prendo.

Per Tommaso questa suonava come una provocazione. Guardò Francesco, e nei suoi occhi c’era già la luce di chi non ci sta a farsi mettere i piedi in testa da una donna incontrata nel bosco.

Quanto ci vorrà? Chiese Tommaso.

Dipende da quanto saremo bravi, se non avete mai fatto una ferrata ci vorrà più tempo.

Ci sei mai stata sul Montagnone? Chiese Francesco a Beatrice.

No, è la prima volta anche per me. Forza, riempiamo più borracce possibili: questa è l’ultima fonte segnalata, e dobbiamo razionare l’acqua se vogliamo che tutto vada bene.

 

 

Dopo diverse ore di cammino nella boscaglia che si alternava a tratti di sentiero ormai coperti da felci, si fermarono a mangiare, poi ripresero a camminare gran parte del pomeriggio. Verso sera arrivarono a una spianata di erba bassa, da cui partiva una parete rocciosa che si innalzava verso l’alto, sparendo dove l’occhio non arrivava a vedere. Era quella la prima tappa della ferrata del Montagnone.

Quanto saremo alti? Chiese Tommaso.

Secondo me saremo quasi a 1.400, rispose Francesco.

No, meno, direi più o meno 1.300, lo contrariò Beatrice.

Per essere a 1.300 metri c’era un vento fresco ma nulla più, il sole era abbastanza basso, vicino al tramonto e forse i tre erano ancora accaldati dalla camminata, perché non sentivano alcun tipo di freddo.

Sta cambiando il tempo, disse Beatrice.

E in effetti il vento fresco stava aumentando sempre di più, dei nuvoloni neri da nord-est si spostavano verso di loro, e soprattutto iniziavano a sentire dei tuoni. Tommaso iniziò subito a montare la tenda, ma Beatrice lo frenò, secondo lei quel punto era troppo esposto ai fulmini, dovevano trovare un luogo più riparato se volevano stare tranquilli.

I fulmini in montagna sono la minaccia più grande per ogni escursionista: gran parte delle morti sono causate da fulmini improvvisi e talvolta stare in tenda al coperto o essere in mezzo a un prato non fa differenza, l’unico modo per scappare è entrare in un auto con i finestrini chiusi, oppure in una costruzione con gli infissi bloccati. Ci sono poi alcuni accorgimenti come non mettersi in piedi in mezzo a un prato, non mettersi sotto a un albero particolarmente alto e isolato, evitare singole rocce, peggio se a punta, e soprattutto tenere lontano ogni oggetto di ferro. Ma con i fulmini non c’è mai certezza di stare al sicuro: bisogna trovare un riparo al più presto e sperare nella benevolenza del caso. I fulmini fanno paura all’uomo da sempre perché rientrano tra i fenomeni più imprevedibili del creato.

Dove andiamo allora? Chiese Tommaso.

Beatrice si guardò in torno, ma non rispose.

Considerando che non ci sono case montiamo una tenda e poi entriamoci tutti dentro, disse Francesco.

Tommaso guardò Beatrice aspettandosi un via libera, ma era come bloccata.

Avete sentito? Disse Beatrice. Tra il tuono e il lampo sono passati circa due secondi, questo vuol dire che il temporale è vicino. Non abbiamo altra scelta, facciamo come dice lui e speriamo bene. Sbrighiamoci.

I tre montarono la tenda in meno di tre minuti, la pioggia aveva iniziato a cadere forte, ma in poco tempo si misero dentro la tenda, rannicchiati con le gambe contro il torace e la testa bassa. In assenza di altre protezioni sarebbe stato l’unico modo per stare più sicuri.

Avete i telefoni? Chiese Beatrice.

I due risposero di no.

Nemmeno io, rispose lei.

I tre rimasero in quella tenda rannicchiati per quasi un’ora, nessuno parlò, erano tutti impauriti dalla possibilità che un fulmine potesse casualmente colpirli. La paura dei fulmini non è soltanto un malumore infantile, specie in montagna. No, al contrario la paura dei fulmini è quanto di più primitivo e immediato esista per il nostro cervello, un antico retaggio dei nostri antenati spiazzati dalla poca comprensione del mondo senza il faro della scienza.

Fu così che Francesco sperimentò per la prima volta l’incertezza della natura, che da amica incantevole ben presto si trasforma in furia di distruzione.

Quando la pioggia passò i tre uscirono dalla tenda per cenare di fronte al fuoco. Non fu facile accenderlo, perché la legna era bagnata, ma fortunatamente Beatrice era stata previdente al punto di portarsi una manciata di legna secca in tenda.

Mentre mangiavano di fronte al fuoco l’apatia di Francesco tornò in tutta la sua forza destrutturante, toccando il fondo e trasformandosi quasi in un’incontrollata paura dell’ignoto. Gli venne automatico di pensare a Sara, ai suoi genitori, a suo fratello e infine anche a suo nonno. Ripensò al suo telefono a casa e per la prima volta pensò di aver fatto la più grande stupidaggine della sua vita. Non era tanto perché non potesse salvarsi da quella situazione con una telefonata, ma perché a tutte le sue incertezze se ne aggiunse un’altra: il non sapere se Sara avrebbe digerito o no quella partenza affrettata che gli era stata comunicata all’improvviso e seguita da giorni di assoluto silenzio e distacco. Francesco pensò per la prima volta che tra tutte le cose a cui poteva rinunciare Sara era la più preziosa. Aveva nutrito dei dubbi su lei, e questo era vero, ma non per colpa di Sara, ma per colpa di se stesso: si sentiva spiazzato dall’incombenza di fare le cose sul serio e oltretutto lei sapendo come prenderlo non gli aveva mai dato un valido motivo per andarsene, tanto da convincerlo a cercarselo da sé.

La loro storia era la massima espressione della libertà nell’amore, tu sei tu e io sono io, però insieme siamo qualcosa di più che la somma delle singole parti. Come aveva potuto snobbare un rapporto così prezioso con un sintetico messaggino prima di partire?

Ti manca la mamma? Chiese ironica Beatrice a Francesco, vedendo che il cibo nel suo piatto giaceva ancora intatto.

Lascialo stare, disse Tommaso, lui è fatto così.

Cosa ti preoccupa? Gli disse Beatrice avvicinandosi.

Niente, ripose lui.

Vediamo un po’, a te Tommaso cosa ti preoccupa invece? Gli chiese Beatrice.

A me l’incertezza, rispose Tommaso.

E chi non si preoccupa per l’incertezza…

 

Sai, continuò Tommaso, io e France abbiamo intrapreso questo viaggio per due ragioni: la prima è che volevamo prenderci un’ultima vacanza prima di iniziare con il mondo del lavoro. Lui sta scrivendo la tesi, io sto aspettando di fare i primi colloqui di lavoro, e poi il futuro chissà dove ci porterà.

Vi capisco un po’, io per fortuna ho davanti un anno di studi, disse Beatrice, però a differenza vostra sono piuttosto sicura di quello che voglio fare.

E cosa? Chiese Tommaso.

La veterinaria.

Francesco continuò a pensare bloccato con cibo nel suo piatto.

Ma lascia perdere, piuttosto qual è la seconda ragione per cui siete partiti? Chiese Beatrice.

La seconda ragione? Rispose Tommaso guardando Francesco in attesa di una sua reazione.

Siamo andati a trovare una persona e poi ci siamo persi cercando il rifugio, rispose Francesco.

Chi è la persona che vi ha trascinati fino a questo posto?

Nessuno dei due rispose.

Scommetto che c’entra qualcosa il Santuario, disse Beatrice.

Perché? Rispose Francesco.

Perché è da lì che proviene la vostra strada, se siete partiti da Pendice in quale altro posto eravate diretti altrimenti?

Sì cercavamo un certo Padre Felice, rispose Tommaso.

È lui che vi ha lasciato quella mappa che indica la cima del Montagnone?

Sì, risposero i due in coro.

A quel punto Francesco raccontò la storia anche a Beatrice, e a quanto pare quel racconto fu così avvincente che fece tornare a Francesco tutto l’appetito che aveva perso. Beatrice sembrava entusiasta della storia: il mistero del nonno aveva preso anche lei come fosse sempre stata una di loro.

 

Andiamo a dormire che domani ci aspetta una prima bella scalata, disse Beatrice gettando una manciata di terra sul fuoco.

La mattina successiva quando Tommaso e Francesco si svegliarono non trovarono più Beatrice. Uscirono precipitosamente dalla tenda, con la nebbia ancora alta, ma di lei non c’era alcuna traccia. Si vestirono e sfecero la tenda in gran furia pronti per cercarla, poi d’improvviso fu lei a tornare. Era andata a cercare il punto di inizio della via ferrata, particolare non da poco, ma che i due, totalmente inesperti di arrampicata, non sapevano.

Per l’ora successiva si tenne quello che potremo definire come un corso molto accelerato di ferrata. Beatrice insegnò loro come muoversi sfruttando più gli arti inferiori che quelli superiori: concentrarsi sui propri movimenti e tenere sempre ben presente il proprio baricentro. Per farli capire questo concetto fece un esempio molto semplice, si mise l’imbracatura, poi con un moschettone fissò la corda da una parte alla propria cintura, e dall’altra a un sasso. Lasciando andare il sasso risultò evidente che laddove la posizione del corpo raggiugeva il baricentro il peso restava bilanciato al centro, quando però la posizione veniva meno, il corpo si sbilanciava andando all’indietro.

Ecco, disse Beatrice, se dietro di voi ci fosse un dirupo probabilmente con questa mossa perdereste l’equilibrio e rischiereste di cadere, per questo è importante fare attenzione al baricentro e ai propri movimenti.

Poi continuò spiegando che ad ogni movimento si doveva partire a gambe a riposo, leggermente divaricate ma ferme. Solo una volta mossi i piedi si passava a muovere le mani, dopo ogni movimento l’obiettivo era sempre lo stesso: tornare in equilibrio. Beatrice continuò così, spiegando loro tutti i possibili movimenti e quasi ogni possibile imprevisto.

 

Francesco e Tommaso ascoltavano con attenzione e anche con un pizzico di ansia, ma sempre capendo bene i suoi insegnamenti. Provarono anche a indossare le imbracature, a simulare la scalata, poi passarono al come mettersi in sicurezza alla via ferrata. Beatrice fece vedere loro un kit fatto a ipsilon: da una parte c’erano due corde usate come dissipatori alla cui estremità c’erano due moschettoni da attaccare al cavo in ferro che scorreva lungo il crinale, dall’altra parte invece c’era una corda rigida da fissare all’imbracatura, e poi ovviamente c’era il caschetto. Insegnò loro come staccare e riattaccare i moschettoni per restare in sicurezza, e come portarseli dietro lungo il percorso per durare meno fatica, poi una volta finita la seconda parte dell’allenamento passò al discorso finale.

Solitamente prima di fare una ferrata si studia il percorso, disse Beatrice, che guardò i due negli occhi con disappunto e poi riprese a parlare.

Noi fortunatamente abbiamo la mappa e io ho avuto un’idea: divideremo il percorso in due tappe: oggi e domani. I punti difficili sembrano essere diversi, però c’è un posto in cui di regola potremo dormire in sicurezza, lo sfrutteremo per accamparci, poi l’ultimo giorno dormiremo in vetta, che ne dite?

Nessuno rispose e Beatrice riprese a parlare.

Siamo circa a 1.300 metri, dobbiamo arrivare alla cima, la strada da fare è tanta anche per due giorni visto che abbiamo con noi anche zaini e tende. Ci sono domande?

Tommaso e Francesco si guardarono soddisfatti.

Bene possiamo iniziare la vostra prima ferrata.

Erano inesperti, sapevano di rischiare tutto in un’avventura nuova e pericolosa, ma fu così che Francesco quella mattina di fine agosto imparò a sfidarsi per superare i propri limiti. Lo fece affidandosi ad una sconosciuta incontrata in modo inaspettato lungo la strada sbagliata verso la vetta.

 

Per leggere la quarta puntata cliccate qui.

La rubrica Storie brevi è a cura di Simone Bacci, per leggere i suoi libri cliccate qui

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