2 Maggio 2024

In virtù dell’accordo raggiunto il 22/10 a Sochi tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo turco Recep Tayyip Erdogan, l’offensiva di Ankara contro il Rojava è stata arrestata. L’intesa, piuttosto complessa, si articola su una serie di punti e prevede, tra i suoi punti focali, il ritiro di tutte le milizie curde al di fuori della cosiddetta “zona cuscinetto”, ossia una fascia di territorio profonda circa trenta chilometri ed estesa, partendo da ovest, dalla sponda orientale dell’Eufrate a Tall Abyad e da Ras al-Ayn al confine iracheno, esclusa la città di Qamishli, già in precedenza sottoposta al controllo congiunto del governo siriano e del Rojava, ufficialmente denominato Amministrazione Autonoma della Siria del nord-est. Mentre la porzione di territorio compresa tra Tall Abyad e Ras al-Ayn è stata “concessa” all’occupazione diretta del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano, cioè del cartello di milizie arabe e turcomanne sostenute dalla Turchia, il resto della zona cuscinetto di cui sopra viene pattugliato da unità miste russe e siriane, eccezion fatta per la fascia di terra compresa entro i primi dieci chilometri di profondità, sottoposta a una identica forma di sorveglianza, ma con militari regolari turchi al posto di quelli leali a Bashar Al-Assad.

A prima vista, sembrerebbe che la mediazione del leader del Cremlino abbia portato, ancora una volta, a un compromesso capace di accontentare tutte le forze in campo nella regione.


Erdogan, infatti, ha ottenuto ciò che desiderava, ossia un’ulteriore porzione di territorio siriano ove reinsediare almeno una parte dei milioni di rifugiati che, attualmente, vivono in campi di accoglienza su suolo turco, nonché l’allontanamento delle forze YPG, ritenute dal suo governo affiliate al PKK e considerate, pertanto, alla stregua di terroristi, dai propri confini, per non parlare dell’ulteriore estensione della sfera di influenza di Ankara in Siria, ormai allargata a quasi metà del nord di quest’ultima.

I curdi, in compenso, hanno evitato un bagno di sangue e la probabile morte del sogno autonomista che inseguono dai tempi del Trattato di Sèvres del 1920, poiché sono rimasti in possesso di circa un quarto della Siria e le loro istituzioni, ispirate al confederalismo democratico di Abdullah Ocalan, sono rimaste intatte.

Ad un esame più approfondito, tuttavia, risulta evidente che il “giocatore” che ha ottenuto la posta più alta non sia altri che Assad, il quale, fin dai giorni immediatamente successivi all’invasione turca, ha inviato truppe di rinforzo alle milizie curde, con cui, peraltro, ha intrattenuto rapporti ondivaghi e tendenzialmente buoni per tutta la durata del conflitto. Già prima dell’accordo di Sochi e della cessazione delle ostilità, i soldati del raìs erano stati autorizzati a riprendere il controllo, talvolta solo parziale, di città e di province ove non mettevano piede dal 2011, cioè dagli albori della guerra civile, tra le quali Manbij, Kobane e perfino Raqqa, l’ex capitale dello Stato Islamico.

Viene da chiedersi, a questo punto, se, con l’implementazione dell’intesa di cui sopra, il regime di Damasco ritirerà nuovamente i propri uomini, ma, a parere di chi scrive, la risposta non potrà che essere negativa. Del resto, lo stesso raìs, nei giorni finali della battaglia di Aleppo, aveva dichiarato urbi et orbi di essere intenzionato a riconquistare la Siria “shibr shibr”, pollice per pollice, dunque una decisione del genere sarebbe tutt’altro che sorprendente. Le stesse popolazioni che abitano la parte centro-orientale del Paese, inoltre, pur essendo di fede musulmana sunnita, potrebbero, in quanto prevalentemente arabe, prediligere un regime formato e diretto da esponenti della loro stessa etnia, ancorché alawita e dispotico, piuttosto che un’amministrazione democratica e inclusiva, ma inesorabilmente a trazione curda.

Alla vista dell’entità autonoma curda schiacciata a nord dalla Turchia e a sud dalle forze di Assad, entrambe desiderose di accaparrarsi o di riprendersi ulteriori territori, non può non sorgere spontaneo il paragone con la Polonia del 1939, spartita in sfere di influenza, sulla base dei termini del Patto Molotov-Ribbentrop, tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica, nemici giurati, ma alleati di convenienza, proprio come Ankara e Damasco.

Non a caso, forse per timore di una fine simile, la leadership politica del Rojava, dopo aver ridimensionato, negli ultimi due anni, i propositi indipendentisti che l’avevano contraddistinta a partire dal 2013, ha provveduto a ribadire esplicitamente di considerarsi “siriana e parte della Siria”, nella speranza di conservare, quando le armi taceranno definitivamente in tutto il Paese, una qualche forma, anche minima, di autonomia, seppur sotto l’egida del regime di Assad.


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