19 Aprile 2024

Su Uni Info News, il mercoledì è dedicato agli scrittori: con cadenza settimanale, verranno pubblicati racconti e poesie di giovani autori da tutta Italia, selezionati dalla nostra redazione! Oggi vi propongo un altro racconto del nostro Marco Bonavia, intitolato Non Perdiamoci di Vista. Buona lettura!

Scrivi poesie o racconti brevi? Contattaci all’indirizzo giulia.pedonese@uninfonews.it e pubblica con noi!


 

Non perdiamoci di vista

di Marco Bonavia

La mattina è il momento più bello della giornata, pensava cercando di evitare la morte prematura causa scivolamento su sampietrini bagnati, mentre si costringeva ad andare a scuola. Aveva piovuto tutto il giorno precedente, eppure allora era uscito un bellissimo sole, di quelli che cacciano i brutti pensieri e generano dubbi teologici ad atei, agnostici e anche ai religiosi. Tutti forse pensano che dovrebbero mettersi a venerare Ra, il Dio Sole.
Ovviamente stava divagando con la mente e non prestava attenzione al percorso che faceva circa duecento mattine all’anno. Attraversò la strada e rischiò la morte causa macchina, mancandola non di molto. Aveva sempre sospettato che sarebbe finito sotto una macchina, diceva sempre che sarebbe stato di gran lunga il suo peggior investimento. Pochi l’avevano capita, ancora meno avevano riso.
Queste cose quel giorno non lo preoccupavano. Era uno di quei giorni semplici, senza interrogazioni, senza spiegazioni indispensabili, giorni talmente rari che molti studenti non credono nella loro esistenza. Nell’atrio del liceo lo aspettavano i compagni di sempre. Ormai erano cinque anni che stavano lì e credeva che il loro destino fosse quello di stare lì per sempre. Però ultimamente sentiva come un’ombra: stava prendendo coscienza che quel loro viaggio, noioso, che sembrava infinito, pieno di piccole sfide quotidiane, di soddisfazioni e di promesse mancate stava giungendo al termine. Ora che aveva preso le misure di un mondo glielo stavano per sottrarre bruscamente per portargliene un altro. Era l’ultimo anno di liceo e una domanda impertinente bussava insistente nella sua testolina, nonostante lui la ricacciasse via. Quante persone non rivedrai più?

Il viaggio in macchina era noioso, ma lei non se ne accorgeva. Era troppo impegnata a studiare per la trecentesima volta lo stesso capitolo. I professori non avrebbero interrogato quel giorno, però non si sa mai. E inoltre si era avvantaggiata. Vantaggio inutile visto che la volta successiva avrebbe ricominciato tutto daccapo come se non avesse studiato la volta prima. Tanta era la sua insicurezza, ma non l’avrebbe ammesso mai.
Scesa dall’auto, la prima cosa che fece fu prendersela con il tempo, lievemente umido, che le avrebbe arricciato i capelli. Borbottò un po’, poi si accorse che parlare da soli al centro storico era un pochino imbarazzante e smise immediatamente.
Si diresse sotto scuola e appena vide l’atrio si fermò come se le mancasse il coraggio di fare un passo in più. La sua testa era preda di mille pensieri, di mille sensazioni, di mille emozioni e, inoltre, di mille nozioni non trascurabili. Però in questo momento la scuola magicamente passò in secondo piano. Mancava poco alla fine della scuola, ma del suo futuro era preoccupata solo in parte. Ripensò a tutte le gite, tutte le mattine sempre sulle stesse scale per il ripasso con i compagni, le paure condivise. Pensò a cosa le fosse servito studiare, fare compiti, esercitazioni. Si chiese perché aveva studiato Catullo, Aristotele, Aristofane, la rivoluzione d’ottobre, il nesso relativo, il limite di una funzione, la caduta dei gravi, le rocce magmatiche, i lipidi, il neoclassicismo. Cercò di ricordare chi fossero David Ricardo e Hilferding, cosa successe nel 1892, cosa siano l’AFL, la callida iunctura e l’amechania.
Stava per dirigersi verso i suoi compagni quando incontrò lui che si era appena miracolosamente salvato da una morte prematura causa intelletto inferiore che non gli fa comprendere quando può attraversare la strada. Una volta aveva fatto anche una battuta pessima sull’argomento, ma lei non ricordava nemmeno quale. Però gli voleva bene.
“Sarebbe stata una giornata niente male per morire questa di oggi, potendo scegliere, non trovi? Guarda che bel sole”. Lei lo guardò fra lo stupito e il preoccupato per la sua salute mentale: “Potendo scegliere non morirei” e stava per entrare a scuola perché era appena suonata quando lui la fermò.
“Sai, il sole non splende mica così tutti i giorni”
“Sì, va bene, ma adesso entriamo”.
A questo punto fu lui a guardarla come se fosse pazza e subito esternò il suo pensiero: “Ma sei pazza? Non possiamo concederci il lusso di perdere una giornata così bella dentro a quattro mura squallide e diroccate”. Lei lo guardò sorridendo alla sua battuta. Lo guardò meglio e capì che non era una battuta. “Dai, su! È suonata, dobbiamo entrare! Oggi spiega le Epistulae di Seneca”- appena finì di parlare a lui venne da ridere. Lo sguardo interrogativo della ragazza lo spinse a spiegare che lui lo sapeva cosa dicevano le epistulae: “Queste fantomatiche epistulae, stringendo, sono un invito a non perdere tempo, poiché ne possediamo una quantità limitata, per quanto facciamo finta di non accorgercene. E per questo ora sei praticamente costretta a venire con me”.
Lei rimase perplessa: quante cose doveva fare, quanti compiti la oberavano, quante aspettative la opprimevano. E quel Sole era veramente splendido. Sorrise.

Neanche lei riusciva a credere di avergli dato retta. Stavano vagando pericolosamente per il centro, un po’ circospetti, e parlando del più e del meno.
Prevalentemente parlava lui – parlava veramente tanto – però ogni tanto si fermava ad ascoltarla. Lei sapeva che per lui tacere era uno sforzo, ma sapeva anche che la sua non era finta cortesia: voleva ascoltarla sul serio. Passeggiavano per il centro storico quando videro un giovane che portava a spasso un cucciolo. Lei immediatamente si sciolse e iniziò una serie di esclamazioni atte a indicare quanto le piacessero i cuccioli: “O mio dio! Guarda quel cane! È tenerissimo! Morbidosissimo!”- e poi rivolta al cane- “Ciao!” con voce infantile. Lui la lasciava parlare: anche a lui piacevano i cani, ma difficilmente si profondeva in elogi di quel carattere- tanto a testimoniare che se una persona non riempie di elogi un’altra non vuol dire che non tenga profondamente a lei, come non è vero il contrario.
Quando quell’attacco di tenerezza fu finito lei gli chiese perché fosse rimasto in silenzio. Ottenne questa risposta: “Mi piace raccontare storie”, ovviamente gli chiese cosa c’entrasse questo con la domanda che gli aveva fatto.
“Sai, raccontare storie mi piace, non so neanche bene il perché. Spesso uno non capisce il motivo per il quale gli piacciano certe cose: è strano. Forse, semplicemente ci piace ciò che ci fa star bene, che ci fa sentire a nostro agio. Vuoi che te la racconti la storia di un cane?”.
Lei voleva allora lui raccontò.
“Il protagonista di questa storia è un cane da caccia, il migliore. Era forte d’animo come di costituzione, dai sensi molto ben sviluppati e da una scaltrezza che lo rendeva il più amato dai cacciatori e il più temuto dalle bestie perché il suo arrivo spesso stava significare che qualcuno sarebbe diventato la cena di qualcun altro; anche se non gli portavano rancore perché gli animali hanno capito il funzionamento della giostra della vita molto meglio di noi. Un giorno mentre era di ritorno dalla caccia, con il suo amato padrone incontrò sul sentiero un’orsa che era stata ferita da un cacciatore di frodo e che era finita lì dopo aver assestato dei colpi particolarmente decisi al suo assalitore, che non era stato nemmeno abbastanza abile da tenersi a distanza di sicurezza, né da far fuori un orso con un solo colpo di fucile.
Il risultato fu che il cane e il padrone incontrarono un’orsa enorme e furiosa lungo la loro strada.
Il cacciatore prese a correre subito nella direzione opposta al pericolo chiamando con sé il cane, ma quello rimase lì per proteggere quell’uomo con cui condivideva la vita. Avrebbe trattenuto la fiera per permettere al cacciatore di salvarsi, disposto a pagare qualsiasi prezzo. Il cacciatore aveva già fatto molti metri di corsa quando si accorse che il cane non lo aveva seguito. Allora si maledisse per essere stato così codardo da curarsi dalla sua propria salvezza non notando che il suo fido compagno non era con lui e che stava fronteggiando il pericolo per salvarlo. E in più, quello armato era lui, non il cane.
Si sentì avvampare per la vergogna e prese a correre indietro ancora più velocemente di quando scappava. Intanto il cane era ormai in un angolo e l’orsa stava per dare la zampata decisiva dall’alto verso il basso quando una fucilata raggiunse proprio quella zampa mortifera. Subito si voltò a vedere cosa era stato a procurarle quel nuovo male in quel momento di profondo dolore fisico; vide il cacciatore e gli si scagliò addosso. Lui sparò di nuovo e la colpì in pieno petto, ma l’impeto dell’animale era tale che riuscì ugualmente a raggiungerlo e a ucciderlo semplicemente con la sua massa. Il cane, ferito e malconcio, arrivò più rapidamente possibile dal padrone e quando vide il suo corpo senza vita si odiò violentemente per non essere riuscito a proteggerlo. Si strappò brandelli di carne a morsi, ululò il suo dolore al cielo per due giorni fin quando altri cacciatori non lo trovarono e concessero una degna sepoltura all’uomo. Da quel momento il cane visse vicino alla tomba del padrone senza staccarsi di lì un momento, e sarebbe morto di stenti se non avesse sentito una conversazione riguardo una strega che viveva al limitare del bosco e che era capace di ogni cosa. Cominciò subito a correre nella direzione che gli suggeriva il suo fiuto, seguiva l’odore di magia – lui riconosceva anche quello – e arrivò a destinazione. Entrò e spiegò cosa voleva.
“Ciò che vuoi è molto costoso, il prezzo sarà caro” fece la strega, ma al cane non importava: voleva solo il suo padrone indietro. Così la strega preparò una pozione complicata la cui composizione durò tre giorni e tre notti e finalmente la mattina del quarto giorno la vecchia disse di aver completato il sortilegio. Il cane si precipitò alla tomba del padrone e lo trovò seduto sulla sua stessa tomba con un sorriso: “Sapevo che non mi avresti abbandonato” disse.
Il cane esplose di gioia, ma sapeva che quella gioia aveva un prezzo, un prezzo molto caro, e si recò immediatamente dalla strega per saldare il suo debito visto che era un cane di parola.
“Ebbene caro cane, io bramo ciò che di meglio tu possiedi: io voglio il tuo vigore fisico e i tuoi sensi, sopraffini oltre l’immaginabile”. Il cane non provò il minimo rimpianto nell’abbandonare le sue doti migliori, trovando il prezzo non solo giusto, ma anche conveniente poiché sull’altro piatto della bilancia stava la vita dell’amico. Così con una fattura la donna si prese tutto ciò che gli altri stimavano di buono in quel cane e questo tornò dal cacciatore lentamente, perché non era più quello di una volta.
In quel momento il padrone era in giro nel bosco a cercarlo e fu felicissimo quando rientrando a casa solo a notte fonda per riposarsi e proseguire le ricerche il giorno seguente, trovò sulla soglia il suo cane. Lo vide deperito e vide che non era più buono per la caccia, perciò decise di tenerlo con sé, come cane da compagnia e visto che si era comportato non come un cane da lavoro, ma come un membro della famiglia, decise di dargli un nome: Fedele”.

Per quanto non le piacessero i cacciatori, fece segnò di aver apprezzato la storia. Un moto di dispiacere si notò sul suo volto quando venne a sapere della morte dell’orsa, ma non replicò nulla. Lui non capiva se le fosse piaciuta e non osava chiederlo, perciò andarono avanti con lui che pensava che la storia non le fosse piaciuta e lei che restava in silenzio, commossa per quella storia. Questo era tipico del loro rapporto: spesso non si capivano, per colpa di equivoci e parole non dette, problemi mentali che non esistevano nella realtà e miliardi di incomprensioni. Comunque si volevano bene, anche se a volte sembravano dimenticarsene. Ma poi riuscivano sempre ad andare avanti e a trovare una soluzione, mai definitiva perché ciclicamente i problemi si ripresentavano, ma almeno era una soluzione temporanea.
Così stavano spendendo la mattinata fra una pasta al bar, due passi e una panchina al sole, finché lui non azzardò di chiederle del suo futuro. La mente di lei era un ribollire di dubbi, di domande; voleva delle risposte, voleva cercarle, ma si limitò a dire: “Ancora non lo so”.
Lui era stupido, ma non completamente, o perlomeno capiva quando lei non diceva tutta la verità, perciò insistette sperando che lei si confidasse. Alla fine la domanda che la tormentava uscì dalla bocca con forza e spontaneità nonostante l’avesse tenuta rinchiusa dentro sé per tanto tempo. “E se sbaglio? E se non prendo la decisione giusta? Questo mi condizionerà per tutta la vita. Vorrei chiedere consiglio, aiuto, ma i consigli degli altri valgono per gli altri, non posso adattare soluzioni di altre persone ai miei problemi.”. Riprese fiato. Le tremava lievemente la mano. “Ho paura” ammise. E rimase a guardarsi i piedi.
Lui respirò profondamente un paio di volte cercando di ordinare i pensieri e di trovare le parole giuste. “È giusto che tu sia spaventata – disse infine – Da questo momento dipende gran parte del tuo futuro, ma ti svelerò un segreto: se vuoi avere una vita piena, il tuo futuro deve sempre dipendere da te. Vuoi essere telecomandata da qualcun altro? In fondo ti sarà già capitato di prendere decisioni importanti, no? Sei felice adesso? È per merito di tutte le tue scelte passate che ti hanno condotto fino a qui; non so come spiegartelo, ma evidentemente hai fiuto e sei in gamba quindi saprai avere cura di te…”.
Lei non era convinta, era troppo confusa e lui non trovava parole per confortarla o per spiegarle che in qualche modo sapeva che lei avrebbe trovato la sua strada, perché lei era in grado di fare qualsiasi cosa e glielo aveva dimostrato.
Così, stanca di pensieri tristi, la ragazza si rivolse ad altro: “Amo quella statua di Canova sai? Quella di ieri: Amore e Psiche – fece un sospiro romantico – E’ meravigliosa.”.
L’altro annui, poi le chiese cosa le piacesse tanto, cosa la rendesse speciale.
“A parte l’armonia, la bellezza propria della statua forse è la storia che c’è dietro che mi affascina di più. È una storia di amore vero, puro. Psiche ama qualcosa che non riesce a vedere, ne percepisce solo la presenza. L’amore trascende la ragione. È una storia di amore puro e incondizionato. Psiche ha paura, ma si sente protetta dall’amore; fintanto che non intervengono le sorelle. Comunque alla fine l’amore è forte tanto che va oltre all’errore innegabile della ragazza di non essersi fidata per un attimo: l’amore comprende la paura, o forse più semplicemente l’amore comprende”.
Lui aveva ascoltato ogni parola con grande interesse e stupore. Poi iniziò a pensare a come la vedeva lui. Le fece i suoi più sinceri complimenti perché quel discordo lo condivideva in pieno e gli aveva toccato qualcosa in profondità. “Ma secondo me, per quanto sia vero, non è solo questo. Quello che mi colpisce è come un Dio possa innamorarsi di una mortale. Amore prova questo sentimento per un essere imperfetto, perché l’amore è imperfetto, questo si dovrebbe capire subito. Come può essere perfetto un sentimento che fa soffrire così tante persone? Eppure è necessario perché altrimenti la vita parrebbe vuota e priva di senso. Compiangiamo quelle persone che non riescono o non hanno interesse a provare questo sentimento: sappiamo che non stanno vivendo. Amore non riesce a fare a meno di Psiche. E quando fra due c’è questo sentimento a volte può capitare comunque di stare male insieme, ma da soli starebbero peggio. Amore tornerà sempre da Psiche perché questa storia dà l’esempio dell’amore più alto, l’amore totale, che come dicevi tu prima è puro e incondizionato”.

Ristettero stupiti del loro momento filosofico e ognuno apprezzava il commento dell’altro. Ormai era giunta quasi ora di pranzo e si avviarono alla fermata ad aspettare il pullman che l’avrebbe riaccompagnata a casa. Fermi, appoggiati alla staccionata, non avevano mai smesso di parlare e vennero interrotti solo dall’arrivo del pullman. Lei salì cercando di accaparrarsi un posto, si voltò e da dietro il vetro opaco si vedeva un accenno di sorriso rivolto nella direzione di quello che era rimasto sul marciapiede. Lei si appoggiò al vetro mentre il bus iniziava il suo percorso. Stava andando a casa.

Era uno degli ultimi giorni di scuola e il sole era, come dovrebbe essere sempre alle porte dell’estate, splendente e irradiava tutto nei dintorni. Quel periodo di tempo era scivolato via fra le mani come un pugno di acqua che si tenta invano di trattenere, come uno stipendio che si vorrebbe conservare: inesorabilmente era finito il tempo a loro disposizione. La vita si era rifiutata di fermarsi un attimo ad aspettarli e li aveva ingannati con tutte quelle piccole cose che rendono il nostro tempo non pieno, ma affollato. Era come se fossero stati a lungo in apnea e adesso cominciassero a sentire la mancanza di ossigeno. Avevano due rimedi diversi per questo: lei lavorava per sentirsi più sicura – cosa che non le riusciva – e lui giocava per sentirsi più libero – cosa, inutile a dirlo, che non gli riusciva.
Il ragazzo non aveva mai scordato però quel giorno di sole quando non erano andati a scuola. Se era nervoso lo rasserenava, se era felice lo convinceva della sua felicità e se era medio gli infondeva fiducia. Le era grato. Per tutto. Per quei cinque anni, per quei minuti al giorno che si parlavano, per ogni messaggio, ogni parola detta, ogni frase scritta, per ogni litigio perché poi si era risolto, per tutto l’aiuto che aveva ricevuto, per tutto quello che aveva dato. Si chiedeva se per lei fosse la stessa cosa.
Così, quel giorno passò in libreria e le comprò un libro che aveva amato perché parlava di difficoltà di un ragazzo, speciale come tutti i ragazzi che hanno ancora un po’ di fantasia e immaginazione, uno dei buoni così rari oggi e di come lui capisse che è difficile affrontare pericoli e ostacoli, ma in fondo se ti arrendi hai già perso. E poi l’aveva convinto quella frase bellissima che pronuncia un vecchio chiamato Baruch. C’è gente che dice che vuol lottare e poi confonde il fischio di inizio della partita con quello dell’ultimo minuto, e va a casa. Poi cercò un qualcosa da metterci dentro come biglietto di auguri per un felice congedo: sapeva che era improbabile che si incontrassero di nuovo e voleva che lei avesse qualcosa per non dimenticarlo.


Lei ormai stava a Roma da almeno un paio di anni. Quel giorno era tornata a casa per fare una sorta di inventario e vedere cos’altro portarsi nella nuova casa. Ascoltava la musica e cantava a voce altissima, tanto era sola a casa, e intanto metteva in ordine la camera.
Stava svuotando la libreria quando vide un libro che non riconosceva e questo catturò la sua attenzione. Lei di certo non l’aveva comprato. Pensò fosse del padre e lo sfogliò per vedere. Cadde qualcosa da dentro, un foglio, un cartoncino. Lo raccolse. Lo portò a sé. Era un’immagine di Amore e Psiche e si ricordò di quel regalo che lui le aveva fatto. L’aveva appoggiato lì ripromettendosi ogni volta di aprirlo o di guardarlo, ma poi aveva sempre disatteso quel pensiero.
Si ricordò che era più di un anno che non lo sentiva, si ricordò di tutte le promesse che si erano fatti, con lui e gli altri compagni, si ricordò che non le avevano rispettate, non per cattiveria, ma perché la vita prende il sopravvento. Sospirò e stava per riporre tutto quando notò che dietro la cartolina c’era scritto qualcosa. Si sedette sul letto e senza pensarci si mise a leggere quelle righe scritte fitte.
Ti ricordi quella giornata di sole quando saltammo scuola? È uno dei ricordi più felici che ho, non solo di questi cinque anni, ma di una vita intera, per quanto ancora non molto lunga. Io non sono stato capace di aiutarti a superare le tue paure, ma sono sicuro che ci penserai da te: sei molto forte, anche se a volte non lo credi. Ti voglio solo dire che magari le decisioni di oggi ti porteranno verso un futuro inaspettato e troverai qualcuno con cui starai bene e ti divertirai, come ci siamo divertiti noi. Probabilmente non ci rivedremo più molto, ma nei miei ricordi prometto che ci rincontreremo spesso e che ogni volta rideremo. E nei momenti di difficoltà capirò che se ho trovato tanta felicità nel mio passato, non c’è motivo per cui non possa trovarne altrettanta nel mio futuro. Averti incontrato è stata la fortuna più bella; non dimenticarti sarà l’impegno più piacevole.
Il viso era segnato da qualche lacrima.
Sorrise.
Anche quella era una bella giornata di sole.

foto profilo rid  Marco Bonavia, classe 1992, nasce a Viterbo. Studia lettere antiche all’università di Pisa. Ama i libri e il rugby, che però non ricambiano e gli hanno chiesto di rimanere amici. Attualmente gioca nel Rugby Livorno 1931, dopo essere cresciuto nell’Union Rugby Viterbo.

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Giulia

Giulia Pedonese, classe 1992, ha cominciato a scrivere prima di sapere la grammatica e, visto che nessuno è riuscito a fermarla, studia lettere classiche all'università di Pisa. Ama cantare, non ricambiata, e nel frattempo si è data un nome d'arte con i baffi.

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