27 Luglio 2024

Io non sono Amleto, Hamlet, Hamletmachine. Allora chi sono?” Così si apre il nuovo spettacolo Amleto + Die Fortinbrasmaschine di e con Roberto Latini, presentato domenica 5 febbraio sul palco del Teatro Era di Pontedera. Fondatore della compagnia Fortebraccio Teatro nata nel 1999 Latini, attore, drammaturgo e regista romano, ha partecipato a numerose rassegne teatrali ottenendo vari riconoscimenti tra cui il Premio Ubu 2014 come miglior attore e il Premio della Critica dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro nel 2015. Lo spettacolo Amleto + Die Fortinbrasmaschine ha debuttato a Gibellina il 24 luglio 2016 in occasione della XXXV edizione del Festival delle Orestiadi. La drammaturgia di Latini e Barbara Weigel ricerca un confronto con l’Amleto di Shaekespeare, il “principe del teatro” e una libera rivisitazione dello spettacolo Die Hamletmaschine di Heiner Müller, drammaturgo tedesco. Di quest’ultimo in particolare Latini e la Weigel recuperano ironicamente il titolo trasformato in “Die Fortinbrasmaschine”, ovvero “La macchina di Fortebraccio” e la suddivisione in capitoli. Unico attore in scena, Latini apre lo spettacolo avvolto in un kimono bianco, stretto in vita da una fascia rossa, come una geisha giapponese o un attore del teatro kabuki, con il volto dipinto di bianco e illuminato da un cono di luce. L’attore inizia il suo monologo davanti a un microfono appeso al soffitto, dal quale la sua voce riverbera nella sala, toccando i temi dell’identità e dell’inquietudine dell’essere umano, confessando al pubblico di non essere Amleto. Attraverso il suo monologo instaura un dialogo con il pubblico che viene interpellato con la domanda “Where is this sight?”, omaggiando così la pratica performativa di Carmelo Bene, che mette in crisi il teatro e la figura dell’attore. La voce è ritmata e veloce, alternata a una musica elettronica composta da Gianluca Misiti, alla quale si aggiungono rumori metallici, suoni di campane e ticchettii di orologi. Latini è la voce di un dramma già accaduto, è il fantasma del padre di Amleto, è Amleto stesso e Fortebraccio, è l’attore che chiede di essere salvato, mettendo in crisi l’equilibrio dell’essere attore e personaggio di un dramma logorato: “salvami, salvatemi, salvami”.

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Sulla scena compare un grande cerchio illuminato sotto il quale Latini cammina, si rotola, corre vorticosamente sfilandosi la tunica, accompagnato da una musica di pianoforte che lo incita a muoversi freneticamente. Risuonano delle campane e dal soffitto scende una grata con una spada rivolta verso il basso, che rimanda ai duelli e alle morti familiari di Amleto. Sulla destra del palco il simbolo della croce è ricavato da due aste dei microfoni, mentre l’attore recita un Padre Nostro in latino e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, alternati al testo shakespeariano annunciato dallo stesso Latini “Atto I, scena I”. Il susseguirsi di parole e frasi in inglese, italiano, tedesco arricchisce la piecés, mentre la voce amplificata, alterata e modificata diventa un medium che mette in relazione con un altrove, quello popolato dai protagonisti defunti del dramma stesso, come un eco. Con l’aiuto di un megafono e della musica instaura un dialogo con le voci registrate, tra dialetti napoletani e una mimica gestuale accentuata, leggiamo reminiscenze della scuola teatrale di Perla Peragallo. La grata già presente in scena diventa un’altalena sospesa per l’attore, che vi sale portando con sé un abito bianco. Ofelia viene qui evocata nel culmine della sua follia, attraverso l’icona tragica del cinema Marilyn Monroe, colta nella famosa scena dell’abito sbarazzino di “Quando una moglie va in vacanza”. Intona un amaro “Happy Birthday”, che di “happy” conserva solo il ricordo, vista la morte precoce suicida, suggerita dalla luce rosso sangue che pervade la scena architettata da Max Mugnai. I microfoni scesi con delle lunghe corde dall’alto vengono fatti oscillare rendendo la voce ora forte, ora lontana, ora un eco, con silenzi e pause che frammentano il racconto. Disponendosi dentro il cerchio sospeso, Latini racconta la morte della sorella di Laerte e del duello con Amleto, il tutto ripetuto ogni volta con l’aggiunta di una parte della storia, come se recitasse ironicamente la canzone popolare “Alla fiera dell’est”, riprendendo il ritmo incalzante di frasi ormai consumate dal ripetersi della storia abusata e saccheggiata di Amleto. Un altro travestimento degno di nota è Bafometto, un demone con le corna, una maschera bianca e tacchi a spillo rossi, che indossa leggings recanti il disegno di teschi, un chiaro richiamo dell’iconografia popolare di Amleto. Questo strano essere demoniaco tiene in mano un’asta del microfono come fosse una baionetta, in riferimento al duello sanguinoso tra Amleto e Laerte; nello stesso momento uno schermo televisivo trasmette il celebre monologo di Rutger Hauer in Blade Runner (“Time to die”), introdotto dall’aria del Rigoletto “Cortigiani vil razza dannata” di Giuseppe Verdi. L’attore si identifica ora con Fortebraccio che urla e chiama il nome di Amleto invano, giocando con gli effetti sonori dell’eco mixato dal vivo da Misiti. Si muove nello spazio fendendo l’aria con una sedia, mentre la scena è illuminata da una luce stroboscopica.


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Un attore che si trasforma in acrobata legandosi alla grata per compiere capriole a testa in giù e come una ‘macchina umana’, ripete lo stesso movimento fino a quando, visibilmente affaticato, con estrema naturalezza si siede nel proscenio sotto un lucernario. Con una voce nuda, semplice e umile, Latini recita “essere o non essere”, il celebre dubbio amletico sospeso tra il dolore inevitabile della vita e l’incertezza di una morte suicida. Un Amleto che si rivela soltanto alla fine, in armatura, sopra una sedia a rotelle spinta da Latini che indossa una maschera bianca demoniaca. Come in un salotto di casa l’attore racconta il dramma, finendo con una serie di “bla bla bla”, come se la storia non avesse ancora fine, ma rimanesse aperta a nuove possibili riscritture e reinterpretazioni. Uno spettacolo creativo e simbolico che spinge gli spettatori alla ricerca di una nuova chiave di lettura che eluda la frammentarietà del racconto, libera da costrizioni.

 

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Marta Sbranti

Marta Sbranti, classe 1989. Dopo il Diploma presso l'Istituto d'Arte Franco Russoli di Pisa mi sono laureata in Scienze dei Beni Culturali curricula storico-artistico. Ho conseguito la Laurea Magistrale in Storia delle Arti Visive, dello Spettacolo e dei Nuovi Media, presso l'Università di Pisa. La mia tesi di laurea "Musei e Danza" unisce le mie due grandi passioni la danza e l'arte, che coltivo fin da piccola.
"Toccare, commuovere, ispirare: è questo il vero dono della danza".
(Aubrey Lynch)

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