“Basta leggere la Costituzione per capire che l’istituto del quorum in quanto tale permette di esprimere un dissenso dichiarato attraverso la non partecipazione al voto, dunque si trattava di un’opzione perfettamente legittima sotto il profilo giuridico, politico e Costituzionale […] per cui ho scelto lo strumento più semplice offertomi dalla Costituzione…”
Queste sono le parole pronunciate dal premier Matteo Renzi nel suo discorso a Palazzo Chigi dopo l’esito del referendum abrogativo #notriv.
Su questo tema ho mantenuto un attento silenzio stampa nel tentativo di acquietare la mia indignazione verso l’inconsistente flusso di banalità che a questo riguardo ha invaso il dibattito (pseudo)politico degli ultimi giorni. Ma adesso ho scelto di infrangere la campana di vetro che mi sono costruito d’intorno, ed entrare nel merito della mia indignazione. E voglio farlo proprio perché mi sento indignato, forse quasi arrabbiato, ma badate bene, la mia è una rabbia lucida, razionale e anche un po’ fredda, che mi spinge a vedere le cose dalla giusta distanza emotiva, senza invischiare alcun sentimentalismo in questo mio giudizio, solo buon senso e ragione, niente di più.
Prima di entrare nel merito quel che mi preme è fare altre due premesse.
La prima: questa non sarà un’arringa sulle motivazioni che mi hanno portato ad astenermi, ma una difesa dell’astensione in caso di referendum abrogativo come precisa scelta politica e strumento costituzionalmente legittimo.
La seconda: pur avendo fatto un’altra scelta, nutro comunque un profondo rispetto per il pensiero di chi, maturando la scelta di votare “sì” o “no”, ha deciso di andare a votare; quel che non rispetto è la presunzione di chi, pensando di avere la verità in mano, ha offeso chi ha fatto una scelta diversa, declassando -con non poca sufficienza- l’astensionismo referendario.
Fatte le dovute premesse entriamo nel merito.
Si è parlato tanto di referendum e astensionismo, ho letto delle opinioni scritte con la presunzione degna dei più autorevoli costituzionalisti –almeno loro se lo potrebbero permettere- e motivata con le dicerie più banali che possano essere concepite da una mente umana. È proprio da qui che voglio partire a dire la mia, perché nel formulare un’opinione di natura politico-giuridica sull’astensionismo, con rimandi alla Costituzione, almeno si dovrebbe sapere di cosa si parla. Invece ho letto persone indignarsi per il non voto referendario e definirlo come “atto di ignavia” e “offesa ai Padri Costituenti”. Adesso con la stessa indignazione mi rivolgo a questi e chiedo: che ne sapete voi dei Padri –e delle Madri- Costituenti?
Quello che ho da dire l’avevo già scritto nel mio precedente articolo parlando del contrasto tra le posizioni di Grossi –Presidente della Corte Costituzionale- e Napolitano –Presidente emerito della Repubblica- e allora lo ripeto qui:
Scendendo nel merito delle due posizioni sono evidenti i rimandi a due leggi Costituzionali, il primo – di Grossi- all’articolo 48, mentre il secondo – di Napolitano- all’articolo 75.
L’articolo 48 in un titolo dedicato ai “Rapporti politici” definisce il diritto di voto qualificandolo come “dovere civico”. Questa definizione è frutto di un compromesso maturato all’Assemblea Costituente tra i sostenitori del voto obbligatorio e quelli del voto come dovere morale. La ratio secondo un’interpretazione giuridica che tenga conto della volontà del legislatore è giustappunto quella di una via di mezzo tra un obbligo e un dovere morale.
Fermandosi a questo articolo sembrerebbe scontato dare ragione a chi -il Presidente Grossi- spinge al voto come dovere. Sennonché l’articolo 75 chiarisce che in sede di referendum la Costituzione prevede la sua validità solo qualora venga raggiunto il quorum richiesto. Si viene a delineare quindi un tratto specifico del voto referendario, distinto dal voto politico, che rende evidente una seconda considerazione. E cioè che nel referendum l’astensione ha il valore politico di scelta.
Questo esplicita la fondatezza del discorso di Napolitano, secondo cui la scelta di chi decide di astenersi, ritenendo, a torto o ragione, il quesito referendario formulato in maniera equivoca, o l’iniziativa referendaria inconsistente, sia comunque una scelta politica valida e rispettosa dei doveri e diritti del cittadino. Ovviamente in questa valutazione non è considerato chi, per disinformazione o mancanza di voglia, sceglie di non votare, la scelta in questo caso confluisce in quella fascia di “elettorato passivo” che toglie ad essa ogni valore politico.
L’astensione referendaria secondo la logica di Napolitano ha un valore di scelta politica e dovere civico perché il cittadino che compie questa scelta lo fa pensando di contribuire maggiormente al bene comune facendo fallire il referendum equivoco, dannoso o inconsistente.
Norberto Bobbio nel giugno 1990 denunziò l’astensionismo come un “trucco”, un mero espediente per far saltare il quorum. Mentre altre contestazioni, ben più recenti, considerano l’astensione come un “regalo ai no”. Pur essendo vero che la differenza sostanziale sta nella scelta che guida l’elettore, i risvolti pratici indicati dalle due precedenti confutazioni, specie la seconda, sono del tutto veritieri. Ma si sa, la politica spesso ricorre a vie traverse, seppur legali e frutto di scelte, per raggiungere dei risultati. In questo contesto, la scelta su cosa sia meglio fare per la società è sempre rimessa alla coscienza del cittadino chiamato, alla luce del dettato dell’articolo 75, a dare tre risposte possibili anziché due: “sì”, “no”, “domanda equivoca, dannosa o inconsistente”.
Mi risulta difficile secondo questa logica pensare che l’astensionismo non possa inquadrarsi come una scelta politica consapevole e motivata.
Come vedete chi si riempie la bocca etichettando l’astensione referendaria come “offesa ai Padri Costituenti” o un atto di “ignavia politica”, ignora le ratio che hanno portato a certe leggi Costituzionali in sede di Assemblea Costituente, e nel farlo dimostra anche una superficialità davvero degna di nota. Se poi guardiamo i risvolti politici del referendum notiamo che sono proprio gli astenuti ad aver fatto la differenza. In questo senso è ingiusto –nonché formalmente scorretto- dare dell’ignavo a chi sceglie la via dell’astensione in caso di referendum abrogativo. Anzi possiamo ben dire che l’astenuto consapevole si profila come portatore di una scelta precisa, con dei precisi risvolti politici, che nel caso del 17 aprile si sono visti fin da subito.
Ho già detto, e lo ripeto, di non voler imporre la mia scelta a nessuno, rispetto chi è andato a votare con cognizione di causa allo stesso modo di chi, con altrettanta cognizione di causa, ha deciso di astenersi. Anche io ho sofferto molto nello scegliere di non votare, tuttavia non ho potuto fare a meno di seguire la mia ragione verso la scelta che ho ritenuto più giusta: l’astensionismo. Per esempio al referendum di ottobre andrò certamente a votare, perché per questi tipi di referendum il quorum non è previsto dalla Costituzione, e quindi astenersi corrisponde effettivamente a rinunciare ad un diritto-dovere.
Ognuno è artefice delle sue scelte e anch’io ho fatto la mia. Una scelta dallo spiccato valore politico, una netta presa di posizione priva di ignavia. Non provate a dirmi che astenendomi non ho fatto una scelta politica, perché la mia scelta ha una valenza politica forte e consapevole tanto quanto quella di chi ha scelto di andare a votare, e secondo me chi ha sentito giusto esprimersi con un “sì” o un “no”, ha fatto proprio bene a farlo.
Spero soltanto –e lo scrivo con tono volutamente ironico- che la mia scelta valga tanto quanto quella di chi ha accusato quel 67% di italiani astenuti di essere “italioti” (italiani-idioti), per non aver votato. Rendo grazie a questi nuovi Platone ai tempi dei social network, ai grandi e presuntuosi paladini della cultura democratica, perché almeno ci sono loro a difendere le istanze democratiche di un paese di ignoranti della politica. Tra gli ignavi-astenuti-ignoranti da costoro attaccati c’è anche gran parte del PD, Renzi, Napolitano, Berlusconi e molti altri politici e giuristi. Sì è il caso di dirlo, in questo caso parliamo di gente che di politica e Costituzione non ne sa niente. Forse sarebbe il caso di ammettere che se è andato a votare il 33% degli italiani un perché ci sarà, e di certo non sarà un 67% interamente sperso alla deriva nel mare magnum del menefreghismo.
Ma tranquilli, l’ironia è finita, torniamo ai fatti, l’ho già detto, non starò qui ad elencare i motivi precisi per cui ho auspicato un fallimento del quorum, come non contesterò le ragioni dei “sì” e dei “no”, non mi interessa farlo.
Quel che mi interessa sottolineare è invece che la scelta di chi, in propria coscienza matura l’idea che per il bene comune sia più giusto che il referendum abrogativo fallisca, ha un valore politico analogo rispetto a quella di chi andando a votare sceglie di schierarsi per il sì o il no. Perché -e chiudendo cito nuovamente la conclusione del mio articolo precedente- “In questo contesto, la scelta su cosa sia meglio fare per la società è sempre rimessa alla coscienza del cittadino chiamato, alla luce del dettato dell’articolo 75, a dare tre risposte possibili anziché due: “sì”, “no”, “domanda equivoca, dannosa o inconsistente”.
Mi sembra abbastanza evidente, alla luce di questo ragionamento logico, che pensare di esser nel giusto rispetto a chi non ha votato per scelta, sia un atto di presunzione più che di onestà intellettuale.
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